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Sangui/saghe

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Ovvero le dinastie di dopo la spada


“Il denaro è il Dio dei nostri tempi,
e Rotschild è il suo profeta”
Heinrich Heine

Possedevano il più grande patrimonio del XIX secolo: oro, denaro, castelli, cavalli, dipinti, vino, cantanti, ballerine e artisti, ministri persino; insomma tutto quel che il lusso può concedere. Intuito e fortuna li avevano spinti a scommettere tutto sul duca di Wellington a Waterloo. Poi avevano stampato moneta per le monarchie spendaccione, compresa la piccola dinastia dei Savoia. Quando l’Europa si dissolse nel sangue, anche la famiglia che ne aveva unto le ruote si divise. I Rothschild per la prima volta si separarono. Il ramo francese da una parte, tedeschi e austriaci dall’altra, in mezzo gli inglesi, più giù il piccolo cespuglio napoletano. Tra il 1815 e il 1914 è stata la maggiore banca del mondo, ricorda Niall Ferguson autore di una monumentale biografia autorizzata. E non c’è nessuno che abbia mai posseduto una quota tanto ampia della ricchezza mondiale. Fatte le dovute proporzioni, lo storico inglese stima che Nathan fosse una volta e mezzo più ricco di Bill Gates. Incapaci di resistere all’aggressivo emergere dei nuovi entrati, alla svolta del XX secolo passano la fiaccola del capitale a un’altra famiglia originaria anch’essa della Germania, ma emigrata nel Nuovo mondo: i Rockefeller. Il sogno a stelle e strisce ha creato e distrutto immense fortune, ma il secolo americano è stato segnato soprattutto dal petrolio e dalla Standard Oil.
Corsi e ricorsi vichiani: all’alba del Secondo millennio, i Rothschild e i Rockefeller sono insidiati dagli emuli del Terzo mondo. Oggi l’uomo più ricco, stando alle classifiche di Forbes, viene dal Messico, si chiama Carlos Slim, s’è fatto da solo con qualche solido aiutino politico, sfruttando la privatizzazione del sistema telefonico. Ha creato un impero in tutta l’America latina da dove proviene un altro campione come Eike Batista, brasiliano, figlio di un ministro delle Miniere, diventato il re dei diamanti e delle materie prime. E poi ci sono gli indiani: la famiglia Tata che risale ai tempi dell’impero britannico, Lakshmi Mittal, il re dell’acciaio o il petroliere Mukesh Ambani. Scala il vertice Lee Kunhee, il padrone di Samsung. Per non parlare dei dragoni rossi cinesi come Wang Jianlin che dagli immobili si lancia nel cinema o Zhang Yin che riciclando carta è diventata la donna più potente del paese.
Ebbene, la plutocrazia dell’occidente, dopo aver assistito attonita all’assalto dei parvenu, ha deciso di reagire con un guizzo anti spengleriano. Rothschild e Rockefeller. L’Ottocento e il Novecento alleati contro l’inesorabile marcia del Duemila. Non solo affari, non solo giochi dinastici, ma politica che nelle due più grandi famiglie del capitalismo ha sempre svolto un ruolo da gran dama.
Nathaniel Charles Jacob quarto barone di Rothschild, settantasei anni, capo del ramo britannico della dinastia, miliardario eccentrico e flamboyant che sta con gli indignati e sogna un mondo verde, nel senso di ecologicamente corretto (ebbene sì, c’è poco da sfottere, ha detto proprio così) ha spiegato la sua scelta in una intervista al Sunday Times invitando il giornalista nella tenuta del Buckinghamshire, vestito da country gentleman, ma fasciato di morbido cachemire e circondato dalle sottili forme di Alberto Giacometti che ha sempre adorato e ampiamente acquistato. Banchiere, filantropo, esteta, tombeur de femmes, uomo inquieto e curioso, ama andare contro corrente. “Tutti danno l’America per spacciata. Sono stufo di sentir parlare di declino e non ci credo – proclama – L’America resta sempre il paese più dinamico, più inventivo e anche il più forte. Fra dieci anni diventerà energeticamente autonomo. Ha immensi giacimenti di gas estratto dalle sabbie, oltre al petrolio. Potrà liberarsi dalla dipendenza dal Golfo Persico e della stessa Arabia Saudita”. Sarà una clamorosa rivoluzione. La fine di un matrimonio d’interesse nato con Franklin Delano Roosevelt e Abdul Aziz Ibn Saud a bordo dell’incrociatore Quincy nel febbraio 1945. Una nuova alba anche per il Medio Oriente, sogna Lord Rothschild. Ecco perché ha deciso di scommettere ancora sull’America e sul petrolio.
Anche i Rothschild cent’anni fa avevano delle raffinerie e quando il mar Caspio era il bengodi, si dividevano i giacimenti con gli svedesi Nobel. Simon Sebag Montefiore, nella sua magistrale biografia “Il Giovane Stalin”, racconta che David Landau, direttore operativo della compagnia dei Rothschild, finanziava abbondantemente il partito bolscevico e non solo per evitare scioperi o anche attentati. I rapporti dell’Okhrana scrivono che la principale attività di Josif Dzhugashvili a Baku era “raccogliere soldi e donazioni dai Rothschild”. Altri tempi. Ricordi, non del tutto sepolti. Nel 2003 ci sono ricaduti prendendo una quota di Yukos venduta da Mikhail Khodorkovsky prima che Vladimir Putin lo mettesse in galera.
Ma non c’è America e non c’è petrolio senza i Rockefeller. La loro ricchezza, celata in un intrico di fiduciarie, è sconosciuta con precisione. Hanno mantenuto una grande fetta del loro impero anche se la Standard Oil, su decisione dell’autorità Antitrust, dal 1911 si è frantumata in tante compagnie regionali generando figli e figliastri. Gli eredi più importanti sono la Chevron, la Exxon e la Mobil: queste ultime due si sono poi maritate nel 1999, mettendo insieme un fatturato che supera il prodotto lordo dell’Arabia Saudita.
Partner di Jacob Rothschild è il patriarca David, novantasette anni, ultimo nipote sopravvissuto del fondatore John Davison Rockefeller. Ha trasformato la banca di famiglia, la Chase National, in un colosso mondiale sotto il nome di Chase Manhattan prima di fonderla in JP Morgan. Ricorda come un vanto personale la filiale al numero uno di piazza Karl Marx a Mosca nel 1973, la prima assoluta per una istituzione finanziaria americana. La politica estera è sempre stata, del resto, la sua grande passione (repubblicano, da giovane esordì come segretario del mitico Fiorello La Guardia, sindaco di New York City). Per il fratello Nelson divenne anche una professione che, passando attraverso Truman ed Eisenhower, più quattordici anni di governatorato dello stato di New York, lo portò alla vicepresidenza degli Stati Uniti nel 1974 con Gerald Ford.
È nel Rockefeller Center che vengono messe a punto le operazioni militari dopo Pearl Harbour, a cominciare da quelle dell’MI6. La Cia è nata nel grattacielo art déco al centro di Manhattan, Allen Dulles suo primo direttore, era un amico di famiglia e così suo fratello John Forster segretario di stato con Dwight Eisenhover. Nel 1954 David incontra un giovane emigrato dalla Germania nazista che vuol far carriera in diplomazia e lo sponsorizza: si chiama Henry Kissinger e insegna a Harvard. Da allora in poi marceranno sempre in parallelo, dalle operazioni in Cile per far cadere Salvador Allende all’apertura con la Cina di Mao durante la presidenza di Richard Nixon. Convinto che il futuro dell’Occidente fosse nell’includere pienamente il Giappone come partner alla pari di Stati Uniti ed Europa, David propone l’idea al Council on Foreign Relations di cui era gran finanziatore e presidente. Battuto, nel 1973 si inventa la Trilateral Commission affidandola a un altro emigrato dall’est, il polacco Zbigniew Brzezinski che sarà poi segretario di stato con Jimmy Carter. Nel club coinvolge anche Gianni Agnelli al quale presenta Kissinger che diventa una sorta di doppio ambasciatore per il patron della Fiat e i suoi eredi come John Elkann. “Mi dipingono a capo di una consorteria segreta che lavora per creare una più integrata struttura economica e politica globale, insomma un mondo unito. Ebbene, se è così, sono fiero di esserlo”, scrive David nell’autobiografia uscita nel 2002. Oggi, resta ancora il grande padrino della politica estera, artefice dell’egemonia americana, dalla lotta contro l’Urss alla globalizzazione.
Gli affari di famiglia fanno capo a un trust, cioè una fiduciaria che David ha sempre guidato insieme ai quattro fratelli (Winthrop, John D. III, Nelson e Laurance) dalla stanza 5600 del Rockefeller Center. I molteplici interessi sono amministrati in due fondi, il primo istituito nel 1934 e il secondo nel 1954, entrambi gestiti attraverso la Chase.
Due anni fa, David introduce per la prima volta Jacob Rothschild nel sancta sanctorum e lo affida al capo esecutivo della finanza, Reuben Jeffery. Dopo dodici mesi tocca a Rothschild invitare a Londra l’americano. Il denaro oggi viaggia alla velocità di un clic sul computer, ma la old money è lenta e compassata, solo così riesce a difendersi dai veloci raptor della nuova finanza. Da quei colloqui è nata l’idea che Rti capital partners, che fa capo a Rothschild, comperi il 37% di Rockefeller Financial Services, entrando nel gruppo dalla porta principale. L’accordo viene reso noto il 29 maggio scorso.
Si tratta di affari, ma non solo. È un passaggio importante, dentro un cammino che dovrebbe condurre sotto uno stesso tetto tutti i componenti della casa dello “scudo rosso” (rot schild in tedesco). Si tratta del progetto Concordia, come nel motto di famiglia (Concordia, Integritas, Industria). Viene concepito da baron David René, capo del ramo francese. E prende corpo, come in ogni grande saga che si rispetti, nell’intrigo, nel mistero, sotto l’ombra oscura della morte violenta.

Il fondatore della dinastia, Mayer Amschel Bauer era nato a Francoforte sul Meno nel 1743, figlio di Amschel Bauer, mercante e cambiavalute che aveva aperto un negozio a Francoforte, in Judengasse, il vicolo degli ebrei. Commerciava in monete e in beni reali. E fu il primo a capire che per prosperare nell’Europa dei suoi tempi bisogna diventare multinazionali. Così, decise di stabilire una base per la sua attività in ogni capitale importante del continente, inviando là come propri emissari i cinque figli, facendoli lavorare in autonomia, ma alla fin fine sempre come agenti della stessa casa. Nathan a Londra, Jacob (che poi si fece chiamare James) a Parigi, Salomon a Vienna, Karl a Napoli, Amschel a Francoforte. Le femmine erano escluse dai commerci. Quando morì nel 1812 fece giurare ai figli che non si sarebbero mai separati “come frecce nelle mani di un guerriero”, dice il salmo 127 della Bibbia. Un sogno, che si realizza forse dopo duecento anni, dopo la morte di quello che sembrava l’erede designato.
Amschel Mayor James, a quarantuno anni, alto, atletico, ancora correva in auto (Formula 3) e si lanciava con il suo biplano favorito in picchiate mozzafiato. Dopo una giovinezza spensierata aveva sposato la bella Anita della famiglia Guinness (i re irlandesi della birra); vivevano con i loro tre figli nella grande fattoria di Rushbrooke nel Suffolk, in perfetta armonia. Aveva tutto e nessuna ragione per uccidersi. Tanto che i primi a porsi sospettose domande, sono gli investigatori della polizia francese accorsi la sera dell’8 luglio 1996, attorno alle 19,30 nella suite del Bristol hotel, il lussuoso albergo nel quale prendeva alloggio quando era a Parigi. Lì, steso sul pavimento della sala da bagno c’è il corpo senza vita di Amschel, con la cintura del suo accappatoio attorno al collo, attaccata, dal lato opposto, a un anello reggi-asciugamani. Dopo aver slegato il cadavere, un poliziotto dà uno strattone alla cintura e il reggi-asciugamani si stacca dal muro. “Come diavolo si fa a strangolarsi con un accrocco del genere”. si chiede l’agente. Gli investigatori cercano una lettera, una nota, un biglietto. Nulla. Secondo alcuni resoconti dell’epoca, la polizia parigina era convinta che si trattava di un omicidio, ma è scattata una cortina protettiva di proporzioni globali. Rupert Murdoch in persona telefona ai direttori di tutti i suoi giornali sparsi ai quattro punti cardinali, perché dessero il minimo risalto possibile alla notizia assicurandoli che, in base alle sue informazioni riservate, si tratta di un banale attacco di cuore. L’inchiesta viene chiusa alla velocità della luce: probabile suicidio. I funerali si celebrano in forma privata. E cala il silenzio su uno dei misteri di casa Rothschild. In famiglia, però, avviene un terremoto.
Quella mattina dell’8 luglio, in avenue Matignon, sede della banca d’affari Rothschild & Cie, si era tenuto un vertice di tutti i principali dirigenti della Royal Asset Management che raggruppa la gestione dei patrimoni controllati dalla Casa Rothschild a New York, Tokyo, Zurigo, Londra e Parigi. All’ordine del giorno, l’integrazione delle attività in una unica società, mossa cruciale per il grande progetto di baron David.
La guerra civile europea, prima, il nazismo e l’Olocausto poi, hanno provocato la diaspora. I Rothschild inglesi si trasformano sempre più in una banca dalle molteplici attività, con centinaia -di dipendenti. Il legame storico con i conservatori (da Nathaniel e Wellington a Lionel e Disraeli), si stringe anche con Margaret Thatcher, facendo della House of Rothschild la principale beneficiaria delle privatizzazioni lanciate dai new tory a partire dal 1979. Un successo clamoroso, che spiazza perfino le ben più possenti banche d’affari americane.
I francesi operano con una struttura più piccola, una società in accomandita i cui soci (quasi tutti della famiglia, i primi esterni entreranno solo negli anni 60) si riuniscono al mattino nella sede di rue Laffitte dove si era installato James nel 1818, acquistando la sontuosa dimora che era stata di Fouché, il potentissimo inquisitore che dalla Gloriosa Rivoluzione era passato all’Impero e poi alla Restaurazione. Lì aveva creato il celebre salotto la baronessa Betty, “l’Angelo” di Heine, ritratta da Ingres, protettrice di Bellini, amica di Rossini e madrina del beau monde intellettuale. I Rothschild sono diventati fino in fondo parte della storia di Francia. Hanno combattuto nella resistenza con la France Libre stringendo un buon rapporto con Charles de Gaulle, anche se il generale non amava loro né gli altri esponenti della Haute Finance. Finché un brillante dirigente della banca Rothschild, Georges Pompidou, non decide di entrare in politica e il Generale lo sceglie niente meno che come proprio delfino.
La grande modernizzazione impressa al paese dal nuovo presidente dopo i tumulti del maggio ‘68, lancia la famiglia di finanzieri in grandi operazioni che vanno al di là della gestione del patrimonio degli ultraricchi nel quale si era specializzata. Sembrano quasi rinverdirsi i tempi in cui erano i banchieri favoriti di Luigi Filippo d’Orléans o quelli della grande corsa alle ferrovie che li mise in competizione con le nuove e aggressive banche commerciali e fece di loro i campioni della industrializzazione francese, mentre i cugini inglesi finanziavano il Canale di Suez.

Finché non arriva al governo l’Union de la gauche con la sua idea di espropriare il grande capitale. Anche per il cinico François Mitterrand i Rothschild erano gli argentieri dei gollisti, dunque la loro banca è una delle prime a essere nazionalizzata. “Giudei sotto Pétain, paria con Mitterrand, ne ho abbastanza”, dichiara al Monde, disfatto più ancora che stizzito, il barone Guy. Riprendersi non sarà facile e l’impresa si deve tutta al figlio David.
A quaranta anni, decide di ripartire da zero con suo cugino Eric, utilizzando una società finanziaria, la Paris-Orléans sfuggita alla nazionalizzazione. Nel 1982 ricomincia dal mestiere classico: la gestione dei patrimoni. “Ci sono al mondo milioni di persone che hanno più di un milione di dollari liquidi. E lì ci siamo noi”. dice Daivid. A Parigi deve fare i conti con le ambizioni del cugino Edmond, il più ricco della casata francese, il quale ha deciso di andare per proprio conto e gestisce la Compagnie Financière Edmond de Rothschild. La differenza tra le due imprese è di uno a dieci a favore di Edmond. In molti, poi, inarcano le sopracciglia di fronte al fattore umano. David è stato un protagonista delle cronache mondane, ama le donne, la buona tavola, i piaceri della vita. I suoi sigari avana si chiamano, non a caso. Epicureo n° 2. È un ebreo poco osservante, anche se siede, sulle orme del padre, alla presidenza del Fondo sociale ebraico unificato e non va mai in ufficio il giorno dello Yom Kippur. Nei suoi anni vissuti da dandy ha avuto alcune delle donne più affascinanti del mondo, come l’attrice Marisa Berenson. Ha sposato poi la bella Olimpia Aldobrandini, nome della più antica nobiltà papalina.
Invece, David, proprio lui, ha le spalle abbastanza forti per restaurare i fasti della maison. Piccolo, i capelli grigi, con una leggera pinguedine che tradisce l’amore per il buon cibo e soprattutto il buon vino (soprattutto il delicato bordolese Château Lafite, la marca di casa, mentre il celebre Mouton è appannaggio del barone Philippe, ramo britannico), lo sguardo acuto e la bocca curvata in una piega ironica, ama il consenso, non tratta i collaboratori dall’alto in basso, non ha l’aria del finanziere d’assalto. Ha cominciato gli studi a New York dove la famiglia si era rifugiata durante la guerra, li ha conclusi a Parigi nella illustre Sciences Po.
Nel 1984, arriva al governo Laurent Fabius, socialista moderato, vicino al milieu degli affari e membro riconosciuto della comunità ebraica parigina. Consente di nuovo ai Rothschild di esercitare il mestiere di banchieri, anche se potranno usare di nuovo il loro nome solo nel 1986. Nasce così Rothschild & Cie protagonista di operazioni clamorose come l’acquisto di Jacob Suchard (cioccolato) da parte di Philip Morris, la vendita di Pathé-Cinema, l’ingresso di Vincent Bolloré nel gruppo Rivaud, l’acquisto di Cinzano da parte della britannica Grand Metropolitan.
Siamo ai primi anni 90, il decollo è dietro le spalle, David è in quota e suscita sempre più l’ammirazione di sir Evelyn il cugino britannico che occupa una posizione di preminenza nel clan. Nato nel 1931, presiede la NM Rothschilds & Sons, fondata da Nathaniel, il vero finanziatore di Wellington. Da oltre ottanta anni mantiene un privilegio, segno di un potere incastonato nella storia: il fixing del corso mondiale dell’oncia d’oro che un tempo regolava l’intero sistema monetario mondiale. La cerimonia si ripete sempre uguale a se stessa due volte al giorno, gestita dalla NMR per conto della Banca d’Inghilterra.

Nel 1992, Evelyn chiama David e comincia ad osservarlo da vicino. A Londra c’è una vera e propria impresa, la governance è più complicata. Ma anche se di taglia ben maggiore, la cugina londinese batte la fiacca rispetto alla dinamica cugina parigina che macina profitti e successi. Inoltre, c’è stata una vera e propria ecatombe di pretendenti. Evelyn era stato scelto come capofamiglia da suo zio Victor che lo riteneva più capace di gestire gli affari della House rispetto a Jacob, il figlio avuto dal primo matrimonio. Il figlio di secondo letto, Amschel, era allora troppo giovane. Victor a Cambridge si era distinto come uno dei migliori studiosi di materie scientifiche. Nella prestigiosa università, aveva fatto parte del Club degli Apostoli e lì aveva incontrato quattro personaggi che sarebbero diventati le più note spie britanniche. C’erano gli scrittori Guy Burgess e Donald Maclean, sir Anthony Blunt grande esperto d’arte e poi direttore di alcune delle migliori collezioni della regina Elisabetta, e c’era Kim Philby che sarebbe diventato il re del doppio gioco. Anche Victor Rothschild lavorò peri servizi di Sua Maestà durante la guerra. Così, si diffuse la voce che potesse essere lui il mitico “quinto uomo” della cellula comunista di Cambridge. La voce andò in giro a lungo, tanto che la signora Thatcher, una volta primo ministro, fu costretta a diramare una smentita ufficiale.
La scelta di Victor a favore del nipote scatena un putiferio. Jacob, tagliato fuori, accusa di essere vittima di un putsch fomentato niente meno che dal proprio padre. È il 1980 e, nonostante si possa fregiare del titolo di Lord, gli viene impedito di usare il proprio nome per svolgere attività bancaria. Ma, con duecentocinquanta milioni di sterline in cassaforte e un titolo come quello sulle spalle, un Rothschild non si fa certo scoraggiare. Jacob lascia la sua poltrona di presidente di NMR al cugino Evelyn, poi si dedica a fargliela vedere, sviluppando i propri affari. Fonda due finanziarie, RIT Partners e St. James’s Place Capital che si fanno largo nella City e sono due spine nel fianco di NMR. Finché, per far dispetto a Evelyn fonda una compagnia di assicurazione e la chiama J. Rothschild Assurance. Nessuno può cancellare il suo nome. In compenso (o come rappresaglia?) Nathaniel, figlio di Jacob viene tagliato fuori dalla successione negli affari di famiglia, nonostante si sia fatto solide ossa tra i pescecani di Wall Street.
Resta il fratellastro Amschel, di dodici anni più giovane di Jacob. “Non aveva alcun talento per la finanza”, confessa un anziano funzionario della Royal Asset Management. Secondo la ricostruzione del settimanale Le Point, i francesi, che avevano già ottenuto l’alta mano sulla gestione di portafoglio in tutta l’Europa continentale, volevano annettere egualmente il servizio inglese, rimasto indipendente. E cercavano di far valere il cattivo andamento della RAM (Rothschild Asset Management). Ciò aveva urlato la suscettibilità del suo patron.
Amschel, per la verità, era entrato in affari anch’egli assai riluttante. Non aveva compiuto il cursus honorum tradizionale, niente Cambridge né Oxford, ma la più banale City University di Londra. Aveva cercato di entrare nel giornalismo, lavorando come manager per una rivista letteraria, New Review, che poi ha chiuso. Ma soprattutto, fino a trentadue anni, si era dedicato a tempo pieno alle sue due passioni, la Formula 3 e la fattoria del Suffolk. Victor muore nel 1990, Amschel ha sulle spalle una responsabilità accettata per dovere verso la casata più che verso se stesso. Mentre sir Evelyn manifesta già chiaramente la sua predilezione verso il cugino francese David. Anche se mai nella storia la Casa dello Scudo rosso era stata guidata da un membro del ramo francese. In quel summit dell’8 luglio 1996, dunque, è probabile che Amschel abbia visto una sorta di sentenza nei suoi confronti, il segnale che la successione era già segnata e tutto sarebbe passato nelle mani di David, quando sir Evelyn avesse deciso di dedicarsi a tempo pieno, alla sua passione privata, le corse dei cavalli. Può darsi. Aveva tutto, Amschel, tutto tranne il tocco magico dei suoi avi.
Evelyn era stato chiaro già quattro anni prima, quando aveva dichiarato al Monde: “Se succede qualcosa a me, c’è David: se capita qualcosa a lui, c’è Amschel. Lavorare come una sola famiglia è sempre stato il nostro marchio di fabbrica”. Il bastone del comando passa nelle mani di David solo l’8 luglio 2003, sette anni dopo il suicidio. Niall Ferguson che ha avuto accesso anche agli archivi britannici, glissa sul suicidio: cinque righe su oltre mille pagine. Nessuno sa che cosa si sia detto in quella fatidica riunione. È un segreto di famiglia ben custodito. E nessuno ha più investigato su un episodio che tutti hanno rimosso e molti vorrebbero cancellare. Balzac aveva torto, dietro ogni grande fortuna non c’è solo un grande misfatto, ma molto spesso un’altrettanto grande messinscena. Fiducia come il trust dei Rockefeller, Concordia come la cassaforte dei Rothschild. Due parole, due maschere.

 

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