Perfino la Germania ha annunciato l’intenzione di riconoscere lo Stato di Palestina.
Per una nazione che soffre di un enorme complesso storico-politico è qualcosa di molto significativo. Teniamo conto che per legge, chiunque chieda di soggiornarvi, deve riconoscere il diritto di esistenza dello Stato di Israele (ma non, ad esempio di quello di Ucraìna) e che, chiunque metta in discussione le verità sui Lager subisce condanne assai superiori ai trafficanti internazionali di droga.
Questo orientamento verso un processo che “deve essere avviato subito”, si aggiunge alle decisioni prese o annunciate ufficialmente in questi giorni da Australia. Canada, Francia e Inghilterra.
Così diventerebbero 150 le nazioni a riconoscere la sovranità palestinese, e solo 43, tra cui l’Italia, a non farlo.
Il diniego viene giustificato con la motivazione di non voler riconoscere un governo in cui si troverebbero i terroristi di Hamas. Una tesi senza senso, perché se il riconoscimento di uno Stato dipendesse da chi appartiene alla sua maggioranza politica, non si capisce perché non sarebbero stati disconosciuti, per esempio, il Qatar, l’Iran, la Russia, la Corea del Nord, la stessa Israele, e via dicendo.
Che senso hanno questi riconoscimenti annunciati?
Oltre un anno fa spiegavo per radio che l’azione israeliana fosse da interpretare nella realizzazione del grande hub israelo-arabo dell’energia, in particolare del gas, che stava esprimendo una nuova alleanza che avrebbe obbligato l’accettazione prima o poi da parte di Tel Aviv di un’enclave ridotta e sotto controllo filtrato da israeliani e wahhabiti.
Bisogna(va) che tale enclave fosse isolata e che non precludesse la costituzione progressiva della Grande Israele. E mi sembra che così sia accaduto o stia avvenendo.
Ragion per cui questo “strappo” non sarà probabilmente tanto forte quanto appare.
Annunciavo anche un risvolto possibile: l’attrazione sempre più forte di Israele nell’Oriente “multipolare” come lo definirebbero i russofili, avrebbe potuto allentare i suoi legami con l’Occidente e in particolare con quell’Europa che accusa di essere antisemita.
Non è impossibile: una cosa non esclude l’altra.
Che impatto avrà il riconoscimento dello Stato di Palestina?
Non molto rilevante, si tratta di pura e semplice diplomazia. Israele non avrà molto da temere dalle pressioni esterne. 145 o 150 governi che hanno un’Ambasciata Palestinese che prende nominalmente il posto della Missione Diplomatica della Palestina, come abbiamo da noi, cambia poco o niente. Se non simbolicamente e moralmente.
Simbolicamente e moralmente positivo, finalmente! Ma fuori tempo massimo perché la causa palestinese è stata uccisa da molti anni, usurpata da gang fondamentaliste che sono state impugnate da tutti i players locali (Israele, Qatar, Arabia Saudita, Iran). Il loro principale sponsor fino a pochi mesi fa era Netanyahu, lo stesso che all’Onu sosteneva le ragioni iraniane mentre Israele finanziava e armava massicciamente la guerra degli Ayatollah contro l’Iraq.
Quegli stessi Ayatollah che avrebbero poi sovrapposto l’internazionalismo religioso alle cause nazionali, regolarmente aggredite, e si sarebbero prestati, con un colloquio revisionista storico, indetto a quello scopo, a impedire che la sinistra ebraica europea insistesse nel bloccare le leggi contro il “negazionismo” così come aveva fatto in gran parte negli anni novanta.
Il sogno che durò dagli anni cinquanta agli ottanta, di una nazione che risorgeva, all’interno di una causa panaraba che, oltre a essere principalmente non allineata era filo-europea, non esiste più.
Masse di gente affamata e martoriata è quanto resta di tutto ciò che tutti i players che ho nominato hanno manipolato e mandato al macello.
Il riconoscimento avrà un valore morale, ma è già postumo.
Un ulteriore effetto è ipotizzabile per il futuro.
L’alleanza apparente tra le petromonarchie wahhabite e le sinistre occidentali, può farci supporre che il governo dell’inconsistente Stato futuro di Palestina, sarà orientato a quello che Mélenchon, in Francia, ha definito “islamogauchisme” (un ibrido tra Islam e sinistra).
Restiamo in Francia.
I francesi hanno l’abitudine a schematizzare, e, così facendo, spesso sfuggono loro le sfumature e dunque le sintesi. Ma le analisi spesso sono istruttive.
Un intellettuale, Rodolphe Cart, ha suddiviso la società francese in tre blocchi.
Il blocco elitario e urbano; il blocco popolare e patriota; il blocco musulmano e di banlieue.
Se su questa base si afferma – sia pure come semplice riferimento utopico – l’islamogauchisme, assisteremo allora all’alleanza a forbice tra alto e basso a detrimento della dialettica politica popolare e a sostegno degli equilibri oligarchici, con, in cambio, l’allargamento mafioso degli associazionismi. Come è stato denunciato dallo stesso Macron, perché è un qualcosa già in atto.
Chi aveva previsto, e inizialmente sventato, tutto questo era stato Jean-Marie Le Pen con le sue alleanze franco-arabe in contrapposizione alle organizzazioni immigrazioniste e alle espressioni globalizzate dell’Islam.
Questo avrebbe spezzato la spirale e aperto altre vie da percorrere.
La figlia, come i dirigenti populisti e sovranisti pressoché per intero, non ha capito nulla. Sperando di poter ottenere sostegno da quello che ella considera un potere formidabile di stampo ebraico, si è schierato, come quasi tutti loro, passivamente dietro le sue fazioni meno forti. Così ella e le destre sovranpopuliste continuano a svolgere il ruolo di calamite dello scontento popolare che trasportano però sempre in un vicolo cieco a esclusivo vantaggio delle oligarchie.
Da “sovranisti” hanno aiutato Usa e Russia. Da falchi sionisti essi daranno gas all’islamogauchisme.
E intanto la Palestina, riconosciuta solo da morta, servirà anche così, una volta di più, a tutti quelli che vi banchettano da sempre.
Onore comunque al suo passato, ormai lontano.