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Se Atene piange

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i  non-occidentali non ridono

In Russia, la governatrice della Banca centrale Elvira Nabiullina avverte: c’è il rischio di una pericolosa stagflazione nel Paese, per il combinato disposto di un tracollo del Pil (-10/-12%) e di un’inflazione galoppante (in grado di arrivare fino al 23%) in questo 2022, per effetto di sanzioni occidentali e fughe di capitali. In Cina centinaia di milioni di persone si trovano bloccate per le politiche di contenimento della pandemia e la seconda economia e prima potenza commerciale globale vede un tracollo nelle immatricolazioni automobilistiche (-41%), simbolo della salute dei consumatori della nuova classe media della Repubblica Popolare. In Turchia il presidente Recep Tayyip Erdogan è chiamato a risolvere una dura crisi economica che mette a rischio i fondamentali del Paese e subisce il contraccolpo delle politiche spericolate sul tasso di cambio che hanno portato l’inflazione al 70%.

Per Federico Fubini, editorialista economico del Corriere della Sera, il trend tracciato da queste dinamiche è chiaro. I problemi di Xi Jinping, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan “sono naturalmente diversi fra loro, ma un filo sommerso li lega: i tre hanno compiuto scelte catastrofiche per le loro economie, perché affetti dalla cecità di chi non è esposto a portatori di idee diverse dalle proprie. Perché magari la democrazia sarà anche in declino, ma anche l’autocrazia non si sente molto bene”. Ovvero per Fubini si starebbe verificando il contraccolpo della celebre profezia putiniana del 2019, espressa nell’intervista al Financial Times in cui il presidente russo parlò di un sistema liberale in declino e in smantellamento.

Certamente diversi regimi autoritari in giro per il mondo, negli ultimi anni, stanno dovendo affrontare danni notevoli. Il caso del Venezuela di Nicolas Maduro è emblematico, ma anche Paesi come l’Iran degli ayatollah e l’Egitto del “Faraone” al-Sisi hanno visto le loro economie messe sotto affanno. La magnitudine dei problemi aumenta quando i Paesi hanno taglia e rilevanza crescente: dunque il tracollo dell’economia russa, i danni a quella turca e gli affanni cinesi legati alla “politica zero casi” fanno sicuramente più rumore. E senz’altro Fubini intende esprimere una critica al fatto che i regimi non democratici nutrano il loro consenso principalmente sulla capacità di rafforzamento delle prospettive economiche dei cittadini, oggi messe invece a repentaglio. Ma è davvero così semplice tracciare una faglia netta tra “democrazie” e “autocrazie” quando si parla di indicatori economici? Xi  Jinping, per fare un esempio, è sicuramente leader dotato di una grande capacità di influenza sul sistema interno cinese. Ma è anche l’uomo che a Davos, nel 2017, ha definito la globalizzazione, fenomeno di matrice occidentale e neoliberista, “il grande oceano da cui non ci si può ritrarre”, desiderando plasmarla a immagine cinese piuttosto che abbandonarla.

E Vladimir Putin cosa ha fatto dal 2014 in avanti se non portare avanti una politica economica capace di unire il più classico mercantilismo sulle materie prime strategiche a una vera e propria “austerity” imposta dalla Banca centrale per difendere il rublo? Certamente potremmo dire che il modello pare più la Germania del 2010-2011 che un qualsiasi regime non occidentale.

Per quanto riguarda la Turchia, invece, è un Paese di taglia geopolitica inferiore ai due colossi d’Eurasia, e soggetta a fragilità strutturali legate tanto al sistema interno, con ampie fasce di popolazione a basso reddito e non incluse nei grandi canali dell’economia industriale e dei servizi, quanto a quelle imposte dal sistema internazionale. Erdogan ha le sue colpe con la politica monetaria populista e l’insistenza sui bassi tassi seguita negli ultimi anni, ma l’elenco di Paesi che hanno subito crisi valutarie negli ultimi anni include anche Paesi dai fondamentali simili che definire autoritari sarebbe eccessivo: in ordine sparso, citiamo Argentina, Brasile, Libano, Nigeria e Pakistan.

Del resto, in un sistema economico integrato come quello globale odierno gli sconvolgimenti imposti dalla pandemia prima e dalla complessità della ripresa poi, culminati nello shock della crisi energetica e della guerra in Ucraina, stanno creando problemi generalizzati. Certo, per un Paese come la Russia identificare danni gravi è, visto le sanzioni in atto, più immediato. Così come i limiti delle politiche anti-Covid della Cina e di quelle monetarie della Turchia per le rispettive economie sono lampanti. Ma rischia di essere precipitoso il valutare come assoluti questi giudizi di valore quando ci troviamo in una fase che vede anche l’Occidente liberaldemocratico subire crisi energetica, inflazione galoppante e aumento delle disuguaglianze e dell’esclusione sociale dopo la batosta del biennio pandemico. I regimi autoritari sono in affanno, è innegabile, ma a essere sconvolte sono le regole del gioco dell’economia globale e le basi stesse della globalizzazione. Da cui questi Paesi hanno tratto indubbi benefici economico-commerciali. La transizione, tra futuro del conflitto in Ucraina, boom delle materie prime, probabile crisi alimentare, riguarderà tutti. Democrazie e autocrazie. E non sarà un pranzo di gala per nessun Paese.

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