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Senza di loro l’Italia andrebbe bene

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Noi da tripla A e gli Usa da bancarotta

 

Ci mentono per salvaguardare le potenze debitrici ma se andassimo per la nostra strada saremmo noi a cavarcela invece di andare a picco per salvare gli altri.

Per scongiurare la terza guerra mondiale, quella dei debiti, uno studio del Boston Consulting Group (Bcg) dello scorso autunno («Back to Mesopotamia. The looming threat of debt restructuring») è arrivato a prefigurare che alla fine l’unica soluzione possibile potrebbe essere una riduzione concertata dei debiti totali (degli Stati, delle famiglie e delle imprese non finanziarie) di tutti i Paesi. Bisognerebbe, secondo lo studio, portare il debito aggregato di ciascuna economia sotto il 180% del Pil (assumendo un tetto convenzionale del 60% del Pil per ciascuna delle tre categorie di operatori non finanziari).
Ma come operare tale riduzione? Il Bcg suggerisce di realizzare in modo coordinato un prelievo secco sugli asset finanziari delle famiglie, asset che rappresentano la parte più cospicua e facilmente mobilitabile del patrimonio netto delle nazioni. L’idea è interessante non perché la condividiamo, anzi siamo contrari alle patrimoniali, ma perché è la prova indiretta, come affermiamo da tempo, che non è il rapporto debito/Pil che dovrebbe dimostrare la “sostenibilità facciale” di un debito nazionale, bensì l’esistenza di un patrimonio nazionale cospicuo.
Se si vuole agire sul rapporto debito/Pil in misura consistente il Pil serve a poco: infatti, esso basta a stento a produrre il gettito fiscale con cui pareggiare il bilancio statale annuale. Per ridurre (o, meglio. dimostrare di poter ridurre) significativamente il rapporto debito/Pil bisognerebbe attingere (o dimostrare di poter attingere) alla ricchezza, sempre che ve ne sia a sufficienza. Se gli Stati e coloro che li valutano uscissero dalla logica del debito/Pil, per abbracciare quella ben più stringente del debt/equity, si capirebbe meglio quali sono i debiti realmente sostenibili e quelli che non lo sono. Cambierebbero anche i rating. Ma questo forse ai grandi Paesi, Usa in primis, non farebbe comodo.
Ma non è tutto. Il Bcg sostiene anche che per ridurre a livelli accettabili il debito aggregato dovrebbero essere tassati solo i cittadini più benestanti. Lo studio non spiega però i carichi individuali che si produrrebbero in tale ipotesi. Possiamo tuttavia cercare di capirlo aggiornando al 2011 gli stessi dati del Bcg, che risalgono al 2009, utilizzando a tal fine le stime sui debiti pubblici e privati forniti dall’ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia, ed incrociando tali dati con quelli sulla ricchezza delle famiglie del Wealth Data-book 2011 del Credit Suisse. Da questo secondo rapporto risulta chiaramente che l’Italia è il secondo Paese occidentale dopo gli Usa (e il terzo al mondo dopo il Giappone) per numero totale di adulti con un patrimonio finanziario ed immobiliare superiore ai centomila dollari (circa trenta milioni di adulti italiani sono in questa situazione, cioè il 61% degli adulti, contro solo il 36% degli adulti americani e il 41% di quelli tedeschi).
Per ridurre il debito aggregato sotto il 180% del Pil, il debito italiano dovrebbe essere ridotto di millesessantasette miliardi di euro (cifra pari al 67% del nostro Pil), quello tedesco di ottocentodue miliardi, quello francese di milletrecentocinquantadue, quello spagnolo di millecentoquarantaquattro, quello inglese di milleottocentoottantotto e quello americano di ben novemilacinquecentocinquantatre miliardi di euro (cioè l’88% circa del Pil americano).
Quali Paesi sopporterebbero meglio un simile salasso teorico? Dipende dal livello di partenza del debito aggregato (Germania, Italia e Francia presentano i livelli in assoluto più bassi in percentuale del Pil) e dalla migliore distribuzione tra i cittadini della ricchezza privata che andrebbe tassata (l’Italia possiede di gran lunga la migliore distribuzione, con l’indice di Gini più basso). Se teoricamente, per ridurre il debito aggregato sotto il 180% del Pil ogni Paese tassasse la ricchezza finanziaria dei soli adulti con più di centomila dollari di patrimonio, l’imposta individuale secca meno elevata spetterebbe alla Germania (ventinovemila euro), seguita a breve distanza dall’Italia (trentaquattromila euro) e, più staccata, dalla Francia (cinquantottomila euro).
Tra i Paesi più grandi e più ricchi quelli che dovrebbero tassare maggiormente i propri cittadini benestanti sarebbero la Gran Bretagna (settantaduemila euro per adulto) e gli Usa (addirittura centotredicimila euro), mentre le cifre per Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda non sono nemmeno immaginabili per Paesi così travagliati (variando dagli ottantaseimila ad oltre duecentomila euro per adulto ricco). In pratica, soltanto Germania, Italia e Francia riuscirebbero a ridurre il proprio debito aggregato sotto il 180% del Pil senza prosciugare i patrimoni dei rispettivi cittadini più benestanti. Questo esercizio teorico, basato su un mix tra debt/equity e grado della distribuzione della ricchezza, è un potente indicatore di sostenibilità del debito: non indica la possibile soluzione per evitare la guerra mondiale dei debiti (come pensa un po’ ottimisticamente il Bcg), ma dimostra indirettamente come dovrebbero essere ricalcolati oggi i rating nazionali se si volesse tener conto davvero dei fondamentali finanziari delle varie economie e delle interrelazioni tra debito pubblico e privato. L’Italia, in particolare, meriterebbe un rating molto migliore e più vicino a quello della Germania.
Se poi la Germania facesse squadra con Francia e Italia, avendo i tre “Paesi core” dell’Eurozona i debiti aggregati più sostenibili in rapporto alla ricchezza privata e alla sua distribuzione, la musica cambierebbe anche per l’Eurozona stessa, che potrebbe, in virtù della consapevolezza di possedere uno stato patrimoniale più solido, non solo soccorrere più concretamente la Grecia e gli altri Paesi dell’Eurozona più in difficoltà ma anche comunicare agli occhi del mondo un’immagine dell’Europa molto più florida di Usa e Gran Bretagna. Ma fin tanto che i rating si attribuiranno principalmente in base al rapporto debito/Pil, alla forza strategico-militare, all’accettabilità del dollaro quale mezzo di pagamento a livello mondiale e alla possibilità (che l’Eurozona non ha) di fare a piacimento il quantitative easing, ciò resterà solo un sogno

La guerra mondiale dei debiti sinora è stata essenzialmente una guerra di posizione, che ha interessato solo marginalmente le grandi potenze. Infatti, per il momento i più cruenti spargimenti di sangue hanno toccato quasi esclusivamente le periferie: le compromesse trincee di Grecia, Portogallo e Irlanda, gli avamposti pericolanti di Spagna e Italia e forse tra non molto anche la Francia, quando sarà chiaro che Parigi non ce la farà a rispettare il Fiscal Compact.
L’economia con il più alto debito pubblico e privato del mondo in valore assoluto, quella americana, sembra per ora al riparo, arroccata nel suo quartier generale, ben difeso da tre pilastri: forza strategico-militare, dollaro come unità di conto mondiale e quantitative easing. Grazie alle debolezze dell’Europa, gli Usa sono riusciti perfino a far dimenticare ai mercati ed ai loro analisti che il contagio finanziario è partito proprio dalle bolle tossiche di Wall Street.
Allo stesso modo, sono al riparo dal fuoco la Germania, che pure ha il secondo più alto debito pubblico e il terzo debito privato in valore del mondo occidentale, ed anche la Gran Bretagna, che, sempre dell’Occidente, ha il secondo debito privato e tra un paio d’anni, andando avanti con i deficit attuali, avrà anche il terzo debito pubblico più alto in valore, ex aequo con l’Italia (non più pecora nera ma inter pares) e la Francia.
Sicché, anche se può apparire paradossale, i tre big del debito aggregato del mondo occidentale (Usa, Germania e Gran Bretagna) per il momento pagano tassi di interesse ai minimi storici, come se la guerra finanziaria finora li avesse beneficiati più che colpiti o minacciati. Mentre negli avamposti dell’Eurozona lasciati a se stessi di Spagna e Italia i tassi ballano pericolosamente vicini ai limiti della sostenibilità e nei tre piccoli paesi “periferici” più deboli gli interessi sui titoli di stato si sono impennati ormai da mesi fuori di ogni scala.
Eppure sono lontani i tempi in cui, Giappone a parte (che è un caso particolare perché indebitato soprattutto con se stesso), gli unici debiti pubblici gravi del mondo erano considerati quelli dell’Italia e del Belgio e nessuno pensava nemmeno lontanamente che il debito privato avrebbe mai potuto costituire un problema serio. Oggi, invece, tutte le economie dell’Occidente sono zavorrate di debiti, sia pubblici sia privati (dei quali ultimi solo tardivamente si è compresa la pericolosità e la rapida trasformabilità in debito sovrano, come dimostra anche l’escalation del caso spagnolo). Ma, ciò nonostante, solo alcuni Paesi piccoli (a cominciare dalla Grecia), medi (la Spagna) e la solita Italia, con il perenne marchio di inaffidabilità che ingiustamente (ormai) il nostro Paese si porta addosso, sono sotto il tiro incrociato del downgrading, della speculazione, dei disinvestimenti e del rischio di fuga di capitali.
Finché le grandi potenze debitrici riusciranno a confondere le idee dei mercati e degli investitori sulla reale sostenibilità dei loro debiti, il fuoco le risparmierà ed esse continueranno a lucrare sui disinvestimenti dagli altri Paesi. Ma il momento della verità potrebbe essere vicino e a quel punto o la guerra toccherà anche i big o essi, volendo evitarla, saranno costretti a dar vita ad una sorta di moratoria generale sui debiti (inclusi i propri), facendo terminare il fuoco della speculazione che sin qui ha attaccato solo i pesci piccoli.
 

 

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