Le hostess pensano che stia fumando in aereo, sul volo Venezia-Doha della Qatar Airways, e per Marco Carmagnola, 46 anni di Trevignano, inizia un incubo culminato in tre giorni di detenzione con i peggiori criminali del paese e condito da un attacco epilettico in cella che poteva avere conseguenze fatali. Se è rimasto in vita, lo deve ai medici dei due ospedali del paese dove è stato trasportato in condizioni disperate, ma anche all’ambasciata italiana che è riuscita a farlo curare bene e a restituirgli la libertà.
L’incredibile vicenda vissuta dall’imprenditore, figlio di un noto colonnello dei bersaglieri e trapiantato per scelta da anni nelle Filippine, risale al 25 luglio quando Carmagnola, assieme alla moglie e dopo aver speso tremila euro, prende posto sul volo diretto, dopo scalo a Doha, verso Manila. Carmagnola racconta: «Circa un’ora prima dell’atterraggio a Doha, attivo un inalatore a batteria del tutto simile a una sigaretta, solo che rilascia aromi inodori per gli altri passeggeri. Un’assistente di volo lo vede e mi interrompe con modi poco cordiali al che ripongo l’inalatore nel taschino della camicia. Appena tocchiamo terra, salgono a bordo agenti della security aeroportuale che mi prelevano consegnandomi alla polizia. Mi viene sequestrato il passaporto e il biglietto aereo. Mi impediscono anche l’accesso ai bagagli che la mia consorte avrebbe potuto portare a destinazione, visto che eravamo diretti nelle Filippine. Quei bagagli sono a tutt’oggi in qualche deposito dell’aeroporto».
È solo l’inizio della disavventura: «All’alba, ammanettato, vengo tradotto in un carcere dove mi rinchiudono in una cella di 18 metri quadrati assieme ad altre sette persone, accusate a vario titolo di furti e omicidi. La polizia mi requisisce perfino il cellulare e poi veniamo scortati in quello che è a tutti gli effetti un tribunale di giustizia sommaria: nessun interprete, nessuna possibilità di comunicare con l’esterno. Ovviamente la sentenza del tribunale non l’ho capita perchè espressa in lingua araba. E lì se non parli arabo sei spacciato. Nemmeno l’inglese mi è servito».
«Mi rinchiudono ancora dietro le sbarre e mi siedo su una panca appoggiando la schiena al muro e cercando di rimanere calmo. Poi uno degli occupanti mi dice in un angloamericano stentato che posso stendermi per riposare. Avrò dormito forse venti minuti, ero troppo agitato. Chiedo alla guardia carceraria un po’ d’acqua: niente da fare».
I ricordi di Carmagnola sono nitidissimi: «Ho passato la notte in quelle condizioni, senza possibilità di fare una doccia e tanto meno di cambiarmi d’abito. Sotto stress, senza poter assumere i miei medicinali, il mattino dopo ho avuto un malore e sono entrato in crisi epilettica. Mi hanno ricoverato in un primo ospedale per essere poi trasferito con l’ambulanza in un altro dove sono stato tre notti assistito da medici e paramedici preparatissimi. Il contatto con l’ambasciata d’Italia di Doha è stato fulmineo: la vice ambasciatrice e una sua collega sono venute in ospedale a incontrarmi condividendo la mia sventura».
La felice conclusione della vicenda nasconde ancora brutte sorprese. «Quando mi hanno dimesso dall’ospedale ero di nuovo in libertà. Prendo un taxi e vado all’aereoporto. Alle 17 sono già lì, cerco di recuperare passaporto e biglietto; dopo 45 minuti un graduato della polizia aeroportuale mi consegna il passaporto, ma un supervisore della Qatar mi straccia il biglietto davanti agli occhi dicendo: lei non volerà mai più con noi». Così devo spendere altri 1750 dollari americani per acquistare un biglietto con un’altra compagnia per la tratta Doha-Cebu via Manila».
Conclusioni: «Non ho commesso alcun reato, sono stato trattato da criminale, mi sono stati causati danni fisici e morali, la mia famiglia ha sofferto in modo indicibile: per 4 giorni non ha avuto mie notizie. Ha pensato addirittura che fossi svanito nel nulla o che mi fosse successo qualcosa di peggio. Chiedere un risarcimento è il minimo che potrò fare, appena mi sarò rimesso in salute».
Dopo 20 voli con la Qatar Airways ora Marco Carmagnola è finito perfino nella black list. Poteva morire in cella e non potrà più volare con quella compagnia: tutto senza un perché. Ma almeno ora ha riabbracciato la moglie nella sua Cebu, dove promuove campagne internazionali a favore dei bambini e in cui ha ritagliato il suo angolo di paradiso. Quello vero.