La “Francafrique”, quel sistema di rapporti ‘speciali’ e ‘privilegiati’ con le ex colonie tenuto in piedi dai tempi del Presidente De Gaule, è finito. “Non c’è più” ha chiarito laconico il capo dell’Eliseo, Emmanuel Macron, in un’intervista televisiva a reti unificate.
Parigi non è intervenuta in Niger, dopo il golpe militare ai danni del Presidente eletto, Mohamed Bazoum. E non intende farlo, ha chiarito Macron a oltre 10 milioni di francesi sintonizzati chiudendo definitivamente lo storico capitolo dell’impegno francese in Africa.
Un impegno che era stato sostenuto fortemente da De Gaulle, dopo la guerra d’Algeria e la proclamazione della sua indipendenza (1962) convinto che un Paese non potesse restare una grande potenza senza avere autonomia energetica e materie prime di cui invece l’Africa sub sahariana è ben ricca.
Macron ha evocato brevemente lo spettro della minaccia terroristica presente da anni in Sahel, ricordando perché quasi dieci anni fa Parigi lanciò la sua operazione anti-insurrezionale ‘Barkhane’, guidata da una forza militare di circa tremila uomini prevalentemente dislocata in Ciad ma pronta a intervenire ovunque ce ne fosse stato bisogno.
Anche quella, ovviamente, ha i giorni contati: con l’ambasciatore francese a Niamey smobiliterà anche il contingente militare perché, ha tagliato corto il capo dell’Eliseo, Parigi non sta in Niger “per essere ostaggio dei golpisti”.
Un’epoca che finisce
Che i francesi lo vogliano o no, le parole di Macron hanno messo la pietra tombale su un’epoca. C’è tuttavia da domandarsi se la Francia intenda battere davvero la ritirata su tutti i fronti o, piuttosto, rinunciare “solo” al suo turno – il ruolo strategico in Sahel dagli anni ’60 a oggi – per lasciare la partita nelle mani più sicure (e finanziarmente più robuste) dell’Unione Europea.
In gioco per Parigi non ci sono soltanto le risorse e gli investimenti, ma il problema della minaccia terroristica islamica, il confronto sempre più pressante con la Russia e le sue milizie, nonché la sfida cruciale per gestire le pressioni migratorie.
Rispetto a queste ultime, non a caso, la Francia negli ultimi giorni ha dato prova di inaspettata empatia verso l’Italia alle prese con la crisi di Lampedusa. Macron e il governo di Elisabeth Borne, per la prima volta, si sono detti d’accordo a “non lasciare sola l’Italia”.
Dopo aver anche riconosciuto che il governo Meloni ha saputo evitare “una risposta semplicista e nazionalista” dimostrando responsabilità in un frangente molto delicato, Macron ieri sera ha tirato in ballo l’Europa chiedendo di “meglio condizionare” (a una politica responsabile in materia migratoria) gli aiuti elargiti da Bruxelles alla regione.
Bene quindi, anche per l’Eliseo, gli accordi di “partenariato” per contenere le partenze con i Paesi in transito (come Tunisia o Libia) che sia affacciano sul Mediterraneo e ancora meglio se, in questo sforzo, l’Europa sarà capace di fare squadra.
Bruxelles, del resto, già nel 2021 aveva lanciato la sua strategia comune, integrata, per il Sahel, conscia della necessità di investire nella ‘governance’ – sia a livello bilaterale che a livello comunitario – per stabilizzare e sviluppare Paesi che dovrebbero poter in futuro gestire i loro destini autonomamente, fuori dalla tutela di Mosca o di Parigi, ma anche lontana dall’ombra della Cina, un attore meno alla luce del sole ma non certo secondario visti gli ingenti investimenti di Pechino nella regione.
In un recente articolo l’ex vice ministra degli Esteri Emanuela Claudia del Re, oggi Rappresentante speciale dell’Ue per il Sahel, ha affermato che questa regione “è la vera frontiera meridionale dell’Unione europea”. “Mai come in questo momento c’è grande attenzione verso la regione (il Sahel) da parte degli Stati membri”.
Dopo il problema del conflitto ucraino – ha affermato Del Re – “il Sahel resta il dossier più caldo e importante sul tavolo dell’Ue”. La posta in gioco è altissima e Bruxelles non potrà permettersi la ritirata.