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Una lunga erosione

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Il sistema degli ayatollah non cadrà all’occidentale ma si corroderà altrimenti?

La grande stampa occidentale non ha dubbi: l’ordine khomeinista è prossimo al collasso. Maree umane protestano con veemenza (e violenza) nelle piazze di ogni città, da Teheran a Zahedan, ininterrottamente da più di un mese. A dimostrare sono in particolare i giovani, ossia coloro che hanno in mano il futuro della nazione, ma la rabbia che attraversa la società è trasversale.
Le donne si tolgono il velo, in segno di sfida verso le massime autorità religiose – che, in Iran, detengono anche il potere politico –, mentre i maschi danno fuoco ad edifici, mezzi pubblici. Nelle strade è guerriglia tra bande armate organizzate, a volte legate al MEK, e milizie filogovernative. A Occidente c’è già chi parla con tono speranzoso di rivoluzione, dandole un colore, mentre il governo iraniano corre ai ripari spegnendo la rete e denunciando la presunta collusione dei riottosi con le forze straniere. Una cospirazione multinazionale diretta tra Israele e Stati Uniti.
La descrizione di cui sopra coincide con il vortice di violenza scaturito dalla morte di Mahsa Amini, deceduta il 16 settembre a seguito (sembra) di violenze da parte della polizia religiosa (gašt-e eršād), ma la verità è che combacia alla perfezione anche con la sollevazione studentesca del 1999, la Rivoluzione verde del 2009 e le proteste del 2011.
La verità è che in Iran la protesta si trasforma facilmente in insurrezione, da sempre, perciò è prematuro parlare di caduta imminente del sistema khomeinista. Ma la verità è anche che in Iran, e il crescendo di instabilità sociale ne è la prova provante, fattori endogeni – cambiamenti sociali – ed esogeni – la strategia della massima pressione degli Stati Uniti e la guerra fredda con il blocco arabo-israeliano – stanno creando le condizioni per un futuro mutamento epocale.

In Iran non sarà rivoluzione, ma…
La crisi dell’hijab è la più violenta ed iconica espressione del malcontento popolare serpeggiante tra gli iraniani della storia recente. La più violenta perché, come corroborato dai numeri, ha mietuto più vittime un mese di rivolta per Mahsa Amini – oltre 200 morti, circa 1000 feriti, quasi 2000 detenzioni – che la Rivoluzione verde del 2009 – 50-70 morti, 100-400 feriti, più di 4000 arresti. La più iconica perché, mai come nel 2022, il simbolismo ha giocato un ruolo tanto determinante e messo in discussione l’intero apparato ideologico del khomeinismo – veli dati alle fiamme, statue di Ruhollah Khomeini decapitate.
Ma violenza ed iconicità, per quanto elementi rispettivamente potenti e suggestivi, non sono sufficienti a fare di un’insurrezione una rivoluzione. Urgono uno o più capi carismatici in grado di dare razionalità alla follia della folla – che mancano. Serve un corpo centrale e gerarchico di coordinamento – che è assente. Occorrono volontà e capacità di operare una “transustanziazione politica“: da moto riottoso orizzontale e privo di meta a forza organizzata con aspirazioni partitiche e di cambio sistemico. E indispensabili sono il supporto del mondo dell’informazione – ma quello domestico, non internazionale – e la presenza di seste colonne nelle istituzioni. L’abbecedario della rivoluzione.
In Iran è insurrezione, sicuramente la più mortifera dell’età khomeinista, ma non è ancora il momento della rivoluzione. Arriverà perché, come spiegato sulle nostre colonne nel 2021, esiste una “stanchezza sociale”, data dallo scollamento delle “nuove generazioni” ai valori del khomeinismo, che inevitabilmente si tradurrà in richiesta di riforma sistemica. E anche perché la guerra fredda contro Washington, Tel Aviv e le potenze-guida dell’arabosfera sta sottraendo a Teheran le risorse necessarie alla costruzione dell’economia di resistenza e alla conduzione di un basilare ma utile panem et circenses; sullo sfondo dell’indebolimento dello stato profondo – colonna portante di ogni regime – a causa dell’entrismo del duo CIA-Mossad.
Arriverà il momento del cambiamento, che magari gli eredi di Khomeini potrebbero essere tentati di guidare e/o plasmare sulla falsariga del modello polacco – la transizione democratica temperata del 1989 –, ma non oggi. E anche quando arriverà, historia magistra vitae, la pace tra l’Occidente e il “nuovo Iran” non sarà destinata a durare – ché non c’erano i religiosi al potere, ma dei laici nazionalisti, quando nel 1953 gli Stati Uniti consumarono l’operazione Ajax.

Il parere dell’esperto
L’errore più comune, eppure ripetuto, degli osservatori e degli analisti europei e anglosassoni è quello di leggere i fatti del mondo con le lenti dell’occidentalocentrismo. Lenti buone per capire quanto accade negli Occidenti, e neanche sempre, ma produttrici di distorsioni visive e visuo-spaziali quando impiegate per capire il mondo. La maledizione dell’orientalismo.
Decifrare l’Iran e la crisi dell’hijab nella maniera più obiettiva e meno occidentalocentrica possibile. Questo l’imperativo che ci ha spinti ad interrogare l’esperto di sicurezza internazionale e affari mediorientali Brahim Ramli, un analista strategico con un lungo trascorso alla NATO e la cui sede di lavoro attuale è l’Unità EUROMED del Parlamento Europeo.
La grande stampa internazionale sta seguendo con attenzione gli eventi in Iran. C’è chi pensa che questo è l’inizio della fine dell’era khomeinista. Sta realmente calando il Sole sull’Iran di Khomeini?
È un discorso simile a quello della Russia, nel senso che è innegabile la presenza di apparenti segnali visibili di implosione futura. Penso che accadrà, ma non adesso, non nel breve periodo. L’implosione dell’Iran avverrà nel lungo termine.
Le cose stanno cambiando, queste dimostrazioni ne sono la prova – l’ennesima. Non è più come nel primo ventennio di rivoluzione khomeinista, durante il quale le forze di governo vantavano effettivamente una certa legittimità agli occhi del popolo. Oggi, rispetto al passato, le forze rivoluzionarie sono sotto una pioggia di critiche e, peraltro, sono dilaniate da lotte intestine.
Il regime rivoluzionario è più debole rispetto a ieri, la società sta mutando, anzi forse è già mutata, il contesto internazionale non aiuta Teheran… ma, nonostante tutto, continuo a protendere verso l’improbabilità di un’implosione imminente. Anche perché gli Stati Uniti, al momento, hanno altre priorità.
Le massime autorità iraniane sono corse ai ripari ricorrendo al cospirazionismo. Dietro le proteste, parola dell’ayatollah Ali Khamenei, vi sarebbe la longa manus degli Stati Uniti e Israele. Quanto è possibile, complottismi a parte, un coinvolgimento di Washington e Tel Aviv nella crisi dell’hijab?
La risposta, penso, si trova nel mezzo. I disordini scaturiscono dalla morte di una giovane, il cui decesso ha funto da classica goccia che fa traboccare il vaso, ma non si può negare che Israele e Stati Uniti abbiano degli interessi nell’attuale contesto di insurrezione contro il regime khomeinista. I loro interessi, nello specifico, consistono nel ricalibramento delle priorità di Teheran: dall’estero alle piazze. Far divampare il più possibile il fuoco affinché l’Iran sposti risorse e attenzione dal mondo a casa propria.
Quello che sta succedendo in Iran gioca sicuramente a favore di Israele, ma ciò non implica per forza un suo coinvolgimento. Comunque, a onor del vero, dietrologie a parte, va detto che l’influenza israeliana in Iran è fortissima. Israele dispone di una fitta ed efficace rete di assassini, provocatori, spie, che nei decenni ha dimostrato in più occasioni le proprie capacità – il sabotaggio del programma nucleare iraniano. L’intuito e una certa malizia suggerirebbero che Israele possa aver riattivato tale rete in occasione delle proteste, allo scopo di farle degenerare in insurrezione, infiltrando organizzazioni nongovernative, società civile, eccetera. Ma il malcontento popolare è, a scanso di equivoci, genuino. Fomentare, non creare.
La situazione domestica è, al tempo stesso, delicata e da non sopravvalutare. Perché se è vero che si tratta degli incidenti più gravi dell’era rivoluzionaria, lo è altrettanto che non è la prima volta che scoppiano manifestazioni e moti di ampie durata e dimensioni. Vorrei ricordare i moti del 2009, che qualcuno si spinse, in Occidente, a chiamare rivoluzione. Cambiano i protagonisti: ieri i giovani, oggi donne e minoranze – i curdi, in particolare.
Il malessere è reale, esteso, perciò è sufficiente che ci sia qualcuno in grado di strumentalizzarlo perché degeneri in violenza. E la decisione iraniana di entrare nella guerra in Ucraina a fianco della Russia, vendendole droni e altri armamenti, non ha potuto che incentivare, a mio avviso, Israele e Stati Uniti a intromettersi nell’insurrezione. Anche soltanto a livello di amplificazione mediatica a livello internazionale.
Vorrei ribadire, comunque, un pensiero già espresso in precedenza: ritengo difficile una caduta dell’ordine khomeinista nel breve termine. E poi le proteste sono principalmente contro Ebrahim Raisi, il presidente, mentre chi governa veramente in Iran sono gli ayatollah.
La brutale morte di Mahsa Amini ha dato vita alle proteste più gravi della storia dell’Iran khomeinista: mai così tanti morti. Elevato è anche il simbolismo: girano video di riottosi che decapitano la statue del padre della nazione, Ruhollah Khomeini. La domanda è lecita: quella dei rivoltosi è rabbia estemporanea o espressione di un cambiamento più profondo alla ricerca di spazio? Perché alcuni sondaggi indicano che la gioventù iraniana sarebbe ampiamente secolarizzata, ciò spiegherebbe il crescendo di insofferenza verso i dettami teocratici. E cambiamenti sociali, historia docet, solitamente impongono cambiamenti politici.
Vedo soltanto un cambiamento politico possibile nel breve termine: un governo più accondiscendente alle richieste popolari e, dunque, maggiormente propenso ad alleggerire l’applicazione di alcuni dei dettami più rigidi della teocrazia. Non vedo possibile, però, nessun cambiamento politico di tipo rilevante. Non nel breve termine, si intende.
Sulla genuinità concordo: quest’ondata di disordini è parte di una tendenza più ampia, datata, che nel lungo termine avrà come risultato un mutamento politico di peso, forse sistemico. Ma, di nuovo, parliamo di un orizzonte temporale inoltrato. Anche perché il clero continua ad avere importanza, al di là dei mutamenti nel basso in atto.
Esiste la possibilità che, onde evitare un rovesciamento violento, il clero possa favorire un cambiamento sistemico dall’alto, teleguidato, traghettando la transizione. Un nuovo 1979, però pacifico. Ma servirebbe che il clero lo volesse. E il clero, in questo momento, non ha alcun interesse ad un cambio sistemico.
Nessun ordine è eterno: governi e imperi vanno e vengono. Succederà anche in Iran, anche se non oggi. Ma quando succederà, quando la storia metterà fine all’epopea khomeinista, tra Occidente e Iran sarà pace duratura? La storia ci dice che tra queste realtà civilizzazionali non è mai corso buon sangue: le interferenze inglesi (e russe) negli affari interni iraniani durante l’età Qajar, l’occupazione anglo-sovietica del 1941, la condanna all’esilio di Reza Pahlavi… Quello che voglio dire è che, ecco, non c’erano i rivoluzionari conservatori di Khomeini quando Stati Uniti e Regno Unito, nel 1953, deposero il governo di Mohammad Mossadeq con la tristemente nota operazione Ajax.
Concordo con questa lettura. Non penso che tra Occidente e Iran possa e potrà mai esistere alcun tipo di pace durevole. Tanti sono i motivi alla base di questa impraticabilità conviviale, tra i quali la storia, la geostrategia e le profonde differenze culturali.
L’operazione Ajax, che nel 1953 portò alla destituzione violenta di Mossadeq – “reo” di aver nazionalizzato l’Anglo-Iranian Oil Company –, ha lasciato il segno in tutto il Medio Oriente. E in Iran, in particolare, l’eredità di Ajax è più pesante che altrove: se ne trovano tracce nella società, nell’immaginario collettivo popolare e nella politica estera. Ajax è il motivo della diffidenza iraniana verso gli occidentali. Molti non lo sanno, o ne sottovalutano l’importanza, ma la prima causa della Rivoluzione del 1979 fu il malgoverno dello Scià, rincasato col beneplacito angloamericano all’indomani di Ajax.
Esistono poi, oltre ad un lungo passato di interferenze più o meno gravi, delle questioni di “incompatibilità civilizzazionale”, chiamiamola così, date dalle profonde differenze tra i sistemi occidentale e iraniano in termini di cultura, religione e valori. Differenze di gran lunga maggiori rispetto a quelle che, ad esempio, già dividono l’Occidente dal mondo arabo-sunnita.
Per capire l’Iran è necessario approfondire la natura e il ruolo storicamente giocato dal clero sciita. Clero che, da sempre, è stato fondamentale nel plasmare convinzioni, percezioni e visioni del mondo degli sciiti iraniani. E che, da sempre, è stato occidentalo-scettico.
Il nazionalismo iraniano è complesso, sfugge alle categorie interpretative occidentali, e questo è un altro motivo di scontro in potenza. Non potrà mai esserci nessuna pace duratura tra l’Occidente e l’Iran, neanche se dovesse cambiare il regime di governo e neanche se mutasse il sistema nella sua interezza.

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