Quel che emerge dalla soap opera della crisi parlamentare italiana
Fli: fu flop!
Ancora una volta Fini ha dimostrato di che pasta è fatto. Come politico è un incapace, buono solo a bluffare e a surfare parassitariamente dietro chi traccia la rotta; ma quando il timone tocca a lui, è disastroso. Lo sapevamo bene e ce lo ha confermato clamorosamente facendosi sbeffeggiare sul traguardo e lasciandosi strappare tutto di mano, come non sarebbe riuscito neppure al più scarso capetto di destra terminale.
Da semplici osservatori (tattici)
Questo è il primo dato della soap opera nostrana del 2010.
Il secondo è ancora da leggere. Berlusconi allargherà davvero la maggioranza o vorrà andare al voto? E se l’allargherà, come l’allargherà: spaccando altri gruppi parlamentari o mediando, quindi concedendo contentini agli sterminazionisti etnoculturali che vogliono l’immigrazione di massa, avvicinandosi un po’ alla City e distribuendo privatizzazioni selvagge?
Se tale sarà l’orientamento, il risultato Fini non l’avrà portato a casa né a Roma né a Montecarlo, ma i suoi pupari in parte sì. Il Berlusconi IV, che si differenzia dai primi tre esecutivi del cavaliere in quanto presenta degli aspetti positivi che è difficile riscontrare nei governi della repubblichetta (li troviamo certamente in quelli di Pella e Craxi) potrà perdere buona parte delle sue peculiarità e avvicinarsi a quel grigio informe e servile per la cui realizzazione si è battuto il signorino della scrofa.
Da semplici osservatori (strategici)
Lo scontro che ha animato la soap opera 2010, al di là delle miserie caratterizzate dalle ambizioni umane e dalle gelosie furibonde, lo si legge in una specificità. Da una parte troviamo i super-conformi, dall’altra i “populisti”.
Questi (Berlusconi e Lega su tutti, ma anche componenti craxiane e di centrosinistra nazionale confluite nel Pdl) incarnano una sorta di difesa di classe in una lotta tutta borghese.
In contrasto con norme profondamente volute da multinazionali, banche, commissioni, esse cercano di proteggere un minimo la piccola produzione e la gente semplice. Se l’alta borghesia cosmopolita è contro di loro e se i salariati statali e parastatali non li sostengono, la borghesia produttiva, la piccola borghesia e buona parte del proletariato intravedono quantomeno nelle parole d’ordine dei “populisti” una tutela contro gli espropri legali imposti dalla UE, dalle banche, dal WTO e via dicendo.
E questa è la chiave di lettura più interessante del braccio di ferro in atto, al di là delle Ruby, delle Tulliani e dei bocchinismi.
Una chiave di lettura che non deve poi trarre in inganno, in quanto i “populisti” nostrani non sono né peronisti, né nasseriani e nemmeno gollisti o chaveziani. Sono, al massimo, dei poujadisti che vivono alla giornata e che non incarnano una via alternativa vera e propria né ambiscono a crearla.
Esprimono però quella “eccezionalità italiana” che i commissari politici vogliono rimuovere, non tanto perché di per sé rappresenti un pericolo per le loro opere di ristrutturazione globale, quanto perché può fornire anche all’estero idee per modelli non totalmente conformi.
Dal che si deduce che, a meno di astrarsi dal reale, non si può essere neutrali o indifferenti in questo scontro (che proseguirà con o senza Fini) ma che ciò non basta affatto. Quand’anche il “populismo” nostrano resistesse del tutto, gli mancheranno sempre gli elementi ideali, culturali e sociali per rappresentare una soluzione, che va cercata oltre.
Da osservatori politici
E qui entriamo nel dato interessante che è emerso da questa crisi per bocca dei congiurati intelligenti. Ovvero non Fini, Bersani, Bocchino, Rutelli, che intelligenti non sono o, se lo sono, lo nascondono bene, ma Cacciari e Casini.
Dietro la parola d’ordine al contempo vera e falsa (paradossalmente più falsa che vera) del “fallimento del bipolarismo” è emersa la loro proposta delle confluenze trasversali, degli incontri sulle cose serie e concrete. E’ l’elemento nuovo che si è stagliato, sia pur come ipotesi, nel panorama. E’ l’altro modo – rispetto al populismo demiurgico – d’interpretare il cambio sociopolitico.
Andiamo ripetendo da anni che il sistema sta inglobando tutto e che inghiotte e introietta anche le linee di faglia. Nel farlo esso livella le forme politiche classiche così come sgretola e abbrutisce i rapporti sociali. Per evitare di cullare aspettative “rivoluzionarie” molto datate, bisogna tener presente che a fronte di una grave crisi economica, culturale, ideale, spirituale, della società, il sistema di controllo sociale, finanziario e politico non s’indebolisce, anzi si rafforza e s’inasprisce.
Quelli che parlano di capitalismo in crisi confondono i piani. La crisi è nostra, non degli usurai o dei tecnocontrollori .
C’è però anche una specifica crisi di trasformazione – di passaggio – delle istituzioni e dei filtri.
Questo detta l’imperativo di confluenze emergenziali se si vogliono fornire gestioni accettabili.
Cacciari e Casini lo hanno capito. A differenza dei loro mediocri e presuntuosi alleati di passaggio, essi hanno un progetto sociopolitico in testa. Un progetto che non si limita al servilismo nei confronti dei padroni del vapore ma che cerca di sposarsi con interessi interclassisti: esprimono quindi la variante in salsa doc al “populismo” sfrontato di Arcore e Pontida. Una variante pericolosa perché, laddove la “eccezionalità italiana” crea squilibri – e, quindi, spazi – il progetto dei trasversali, stile “partito della Nazione”, creerebbe stabilità nel rispetto gerarchico delle forze e, quindi, nel totale asservimento internazionale.
Da protagonisti. Sull’onda controcorrente
C’è una lezione da cogliere per chi non l’abbia già tratta, visto che sono almeno due anni che se ne manifesta l’intelligente messa in pratica da parte di avanguardie non proprio sparute.
Cioè che esattamente quello che sostengono Casini e Cacciari, ma con segno e orientamento opposto, è quanto si deve fare. E, se già lo si facesse, lo si deve potenziare.
Confluenze trasversali e incontri sulle cose serie e concrete. Lavoro, casa, cultura, arte, informazione.
Confluenze trasversali e spontanee che si manifestino nella co-operazione, corporativa e locale, che siano socializzanti e che non attendano input verticistici per costituirsi allo scopo di creare e difendere autonomie produttive fino a renderle autosufficienti. Il locale: crocevia tra sociale e tradizionale.
Non contro l’onda, sull’onda controcorrente.
Si va verso le privatizzazioni? Si creino forme per socializzare il privato, ovvero per acquisire quote come soggetti pubblici, locali e autonomi, in modo da non lasciarsi espropriare dei beni, delle ricchezze, delle potenzialità, ma andandovi a sostegno, a sviluppo, a salvaguardia, a valorizzazione.
Si federalizza? Si faccia come nella Germania dei Länder che sono veri e propri soci sociali dei centri produttivi tedeschi.
Si perde lavoro, ci si precarizza? Si costituiscano unità produttive comunitarie e si operi per realizzare tutto l’indotto, dalla produzione alla vendita. E, en passant, si faccia cultura anche producendo, si rigetti la mercificazione alle ortiche durante tutto il procedimento.
Ci si continentalizza, ci si europeizza? Si ristabiliscano un’idea d’Europa, un ruolo e un’identità italiana in Europa e nel Mediterraneo e, soprattutto, si sostenga ogni tendenza all’indipendenza energetica e politica.
L’antagonismo è un ghetto masturbatorio? Si ponga in essere l’alternativa nella quotidianità, rifiutando quei condizionamenti psichici che sterilizzano.
Non si attenda l’avvento di salvifiche liste “radicali”, magari unitarie, di soggetti politici avulsi dal reale, veri e propri parti schizofrenici di patetiche pulsioni proustiane; non s’inseguano poltrone e non ci si sclerotizzi in logiche elettorali, si agisca hic et nunc.
Hic et nunc: in una logica non esclusiva e non inclusiva ma aperta; non inglobante ma preludio di nuova sintesi.
Da protagonisti. Verso una sovranità ricreata
Una nuova sintesi che sia quella della sovranità popolare e nazionale ricreata dal basso, da gente che va sull’onda ma controcorrente. Una nuova sintesi che sia autentica “anima di Stato”, uno Stato rigenerato nella comunità, proprio quando viene cancellato giorno dopo giorno, mentre il suo simulacro si traduce contemporaneamente in una regolamentazione uniformatrice, internazionalista, asservitrice, livellatrice.
Una nuova sintesi che sia la risultante degli entusiasmi vitali e vitalistici di soggetti che non si trasformeranno in atomi, di gruppi che non si muteranno in greggi, di uomini e donne che provano, riconoscono e rinverdiscono i legami con il passato e con il futuro, liberandosi così dalla schiavitù esistenziale dell’oggi.
Una nuova sintesi che sia la risultante di un concerto d’intenti e che non si perda nell’illusione paralizzante d’immaginarsi rappresentata da un organismo politico classico. Specie se questo è formato secondo le logiche burocratiche di un tardivo quanto dilettantesco stalinismo da strapazzo.
Si esprima una trasversalità aperta, di varie matrici, costruttiva – che garantisca anche gelosamente le singole identità culturali e politiche – così come suggeriscono Casini e Cacciari ma non, come desiderano loro, agli ordini di atlantisti, banchieri, tecnici e palazzinari bensì, contro di essi, in dialettica anche furibonda con il “populismo” demiurgico e autocratico. Rispondendo a vocazione tribunizia e dando un deciso indirizzo peronista alla dinamica che potrà scaturirne.
Il dato più importante della “crisi” della soap opera politica 2010 è proprio questo: che una soluzione autonoma, partecipata e sanamente populista è più praticabile oggi di ieri.
All’insidioso “partito della Nazione” (più che a quel polo circoscritto e ridimensionato che, in retromarcia e al ribasso, minacciano oggi di costruire i “neocentristi”) rispondiamo con il Movimento della Nazione, anzi con la Nazione in movimento. Qui ed ora.
Rivolto a coloro che non lo stanno già facendo; gli altri sanno già di che parlo e talvolta lo insegnano anche a me.