lunedì 30 Dicembre 2024

A un dio a lieto fine non credere mai

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Pitesti 1949-1952, “il più terribile atto di barbarie del mondo moderno”.

 

 

La vicenda raccontata in forma narrativa da Dario Fertilio in «Musica per lupi» si è svolta in Romania, nel carcere di Pitesti, fra il 1949 e il ’52, sotto la dittatura filosovietica. Al centro delle torture ininterrotte che avevano lo scopo di edificare «uomini nuovi», degenerate in sadismo e blasfemia, si distinse il detenuto Eugen Turcanu (foto sotto), poi fucilato con i complici per nascondere la verità. Sulla vicenda, sinora tenuta segreta e definita da Aleksandr Solgenitsin «il più terribile atto di barbarie del mondo moderno», il regista Sorin Iliesiu sta girando un film in Romania

 

La cittadina romena di Pitesti, situata un centinaio di chilometri a nord di Bucarest, può sembrare un posto come tanti altri; persino una località relativamente amena, dove «il solito grigio dell’est, la vernice che un tempo ha ricoperto tutto» trasformando i vecchi quartieri in file di tetri casermoni, è mitigata dalle colline circostanti e, più oltre, dalle sagome ammantate d’abeti dei Carpazi che si possono ammirare dalla terrazza superiore; una località dove ogni aprile si svolge una mostra internazionale dedicata ai tulipani, in occasione della quale le fontane inscenano giochi d’acqua e di luci e le bambine sfilano nei costumi tradizionali per celebrare la festa della primavera. Difficile credere che questo scenario di normalità nasconda la memoria dell’orrore; eppure proprio qui, a Pitesti, sorgeva un tempo un carcere speciale per la «rieducazione» dei prigionieri politici, nel quale, tra il 1949 e il 1952, furono commesse atrocità tali da costringere persino il non tenero regime di allora a intervenire per porvi un termine, punendone i responsabili. Non atrocità isolate; piuttosto, un organico e coerente sistema di tortura fisica e morale, affidato non alle guardie, ma agli stessi detenuti già «rieducati», che si trasformavano in implacabili aguzzini dei loro compagni.

A questo tremendo episodio della storia novecentesca Dario Fertilio dedica il suo nuovo libro, Musica per lupi (Marsilio, pp. 172, € 15), una tesa, sconvolgente narrazione nella quale i documenti storici sono rielaborati con esiti di grande intensità espressiva. Un libro sugli orrori del totalitarismo, certo: tema al quale Fertilio ha già dedicato altre volte la sua attenzione. Qui però sembra che l’aspetto ideologico costituisca il punto di partenza per una più profonda e radicale indagine, non tanto da storico quanto da scrittore, sull’abisso che l’animo umano può albergare e che in certe circostanze si spalanca, travolgendo ogni resistenza morale e intellettuale: «un luogo smisurato che alimenta sogni, ricordi e creazioni elevate; ma anche idee mostruose e azioni inumane».

A sfigurare i detenuti di Pitesti sino al completo annientamento della coscienza e della personalità è senza dubbio la serie implacabile di tormenti fisici che si protrae giorno e notte, senza interruzione; è l’umiliazione delle «confessioni» forzate in cui si è costretti a denigrare se stessi e le persone care e a rinnegare qualsiasi fede o principio in nome della nuda sopravvivenza; ma più ancora (e appunto questo distingue l’«esperimento» di Pitesti da altri episodi analoghi) è la torbida, irresistibile seduzione esercitata dal male sulle proprie vittime. Eugen Turcanu, il capo e ispiratore della squadra di detenuti-aguzzini, colui che ne crea e ne perfeziona i metodi con minuziosa crudeltà, trasformandoli in una sorta di mistica della tortura, sembra perfetto per esercitare il ruolo del seduttore: con il suo fisico atletico e gli occhi azzurri abitati da una luce di perversa spiritualità, più che ai demoni orrendi dell’iconografia medievale somiglia a Lucifero, all’angelo caduto; e spesso al terrore che i prigionieri provano per lui vediamo mescolarsi una morbosa forma d’amore.

Non per caso Fertilio, all’inizio del libro, menziona il marchese de Sade e paragona il carcere di Pitesti al castello delle 120 giornate di Sodoma, il luogo emblematico «dove la più sfrenata fantasia distruttiva ha modo di manifestarsi»; ma a questa fantasia distruttiva corrisponde, nell’animo di chi la subisce, un’altrettanto potente vertigine autodistruttiva che fa della vittima stessa un complice del proprio annientamento. È come se qui la psicopatologia desse una mano alla storia (o alla psicopatologia della storia, se vogliamo considerare così le aberrazioni dei regimi totalitari) per consentirle di scrivere le sue pagine più cruente.

È un lungo, atroce rito orgiastico quello che per circa tre anni è stato celebrato a Pitesti sotto la regia di Turcanu: una versione estrema, quasi didatticamente esasperata, di quell’impulso alla negazione di sé che a volte spinge interi popoli a consegnare entusiasticamente la propria libertà nelle mani del dittatore di turno. Fertilio ci mostra all’opera questo meccanismo non tra le masse, ma nelle pieghe più riposte delle coscienze individuali e tra gli spasimi di corpi martoriati; e proprio qui la denuncia cede il campo a una sorta di sgomenta pietà. «Eravamo tutti dannati», dichiara un personaggio sopravvissuto a Pitesti. «E tutti innocenti»; perché «oltre certi limiti di sofferenza… non si può continuare a essere uomini».

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