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Bill Clinton boulevard

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Un ospedale assediato in terra occupata dai narcocomplici genocidi

‘Diario dal Kosovo’, Gianluca Iannone racconta la missione di Casapound Italia e dell’Uomo libero nella ex Jugoslavia

IV puntata, l’ospedale di Silovo

Questa mattina quando siamo scesi per partire per il nostro giro conoscitivo ci siamo imbattuti in una nuova guida, un nuovo autista e un nuovo furgone. Furgone che poi sarebbe un’ambulanza, visto che ha la croce rossa sul davanti e il simbolo internazionale sul fianco. Ambulanza quindi, che però è un furgone, un Ducato nove posti classico per l’esattezza. Un’ambulanza di fortuna da emergenza e un furgone da lavoro sgangherato quanto basta: non male per cominciare, pensiamo tutti e quattro. Subito dopo che siamo partiti il nostro mezzo si ferma, l’autista scende, cambia le targhe e passiamo il ponte, e via spediti tra spifferi gelidi e strade dissestate verso Pristina.

Prima di arrivare a Pristina facciamo sosta al Campo dei Merli, dove sorge un monumento eretto da Tito nel 1957: commemora la leggendaria battaglia di Kosovo-Polje del 1389, un episodio chiave dell’epica popolare dei serbi che assume un valore altamente simbolico nella definizione della loro identità nazionale. Sentiamo Stefano Vernole nel suo libro “La Questione Serba e la crisi del Kosovo” edito da Noctua: “Da allora si narra che fra le montagne continuino ad aggirarsi gli spiriti dei dieci figli del nobile Jug, tutti morti in quella battaglia condotta dai cristiani ortodossi per difendere la terra dei monasteri dal conquistatore turco ottomano. Ancora oggi pare che ogni bambino serbo appena nato, specie nei villaggi rurali, venga così salutato dalla madre: SALVE PICCOLO VENDICATORE DEL KOSOVO. Tutto questo può esser facilmente spiegato dagli avvenimenti tragici che si sono susseguiti in quella terra, memorie storiche che per i serbi rappresentano un calvario incessante e ininterrotto ma allo stesso tempo una fonte insostituibile di simbolismo identitario”.

Il monumento eretto è un’imponente torre, alta 30 metri, da dove, una volta saliti, si vede tutta l’immensa pianura che si allunga sotto.
In lontananza verso sud est si vede la tomba del sultano Murad I,dalla forma arabeggiante. Avere il simbolo della propria identità in pieno territorio nemico non deve essere facile da accettare. Qui infatti ogni casa ha la bandiera non del Kosovo, ma dell’Albania, e qua sotto c’è un presidio di poliziotti albanesi che chiede i documenti per entrare. Si vede lo stato d’abbandono, di trascuratezza
del monumento, e anche i segni delle targhe strappate a forza nelle colonne esterne alla torre. In terra sotto la grande targa scritta in serbo, giacciono sette o otto corone di fiori secche, messe lì chissà quando e mai più tolte. Mentre ci rimettiamo in cammino verso Pristina vediamo tutto intorno al monumento carcasse di automobili e in lontananza due immense fabbriche che rilasciano di continuo nubi di fumo bianco. Pristina è una città che mi ha messo i brividi.

La strada principale è Bill Clinton boulevard. C’è anche una statua in bronzo che immortala il presidente degli Stati Uniti nella sua facciona sorridente e benevola da liberatore. Nell’albergo più importante della città spicca una riproduzione della statua della libertà e tutto intorno decine e decine di mendicanti, di persone scalze, di bambini sporchi che ti si attaccano e ti chiedono soldi,
cibo, sigarette. A Pristina si alternano baracche, case rurali e palazzoni da 20 piani. Ci sono panni stesi ovunque e immondizia accatastata con “precisione” lungo tutta la strada. A cinque chilometri dalla città ci fermiamo al monastero di Gracanica, ricco di affreschi del XIV secolo talmente fitti da coprire ogni centimetro delle pareti. Di tutti i monasteri visti fino adesso è quello tenuto peggio e non solo perché nel 1999 i bombardamenti della Nato lo sfiorarono… Nell’atrio tutte le raffigurazioni sacre sono state ricoperte da incisioni vandaliche e i volti dei protagonisti della storia sacra ortodossa sfigurati con meticolosa perizia.

Ripartiamo e arriviamo all’ospedale di Silovo. E’ l’unico ospedale serbo in tutto il sud-est del Kosovo. Serve 35.000 utenti tra mille difficoltà. A presentarci la drammatica situazione è la dottoressa Jelica Krcmarevic, primaria dell’ospedale. Durante l’incontro stiliamo una lista dettagliata delle priorità. E sono tante, talmente tante che non sappiamo neanche da dove iniziare… Pensate che l’autovettura station wagon utilizzata per il trasporto dei pazienti in dialisi ha due milioni di chilometri. E non è un modo di dire. Questa macchina ha fatto due milioni di chilometri per prelevare persone anziane da casa e portarle in uno dei 30 piccoli ambulatori che fanno capo a questo ospedale. Una struttura che al suo interno ha esclusivamente i reparti di pediatria e medicina interna e due ambulatori, uno dentistico e l’altro d’analisi. Il reparto di degenza ha otto posti. quattro per gli adulti e quattro per i piccoli. Nelle liste delle priorità che ci siamo prefissi c’è anche il reperimento di equipaggiamento medico, la strumentazione per l’ecografia e la radiografia. A Jelica chiediamo dei bombardamenti all’uranio impoverito e lei ci spiega che i casi di leucemia riscontrati negli ultimi anni arrivano tutti dalla zona di Ghigliane, zona che fu bombardata duramente con le cluster bomb, perché lì c’erano l’antiaerea e delle sagome di carriarmati. Dall’alto delle montagne nascono i fiumi e quindi l’effetto disastroso ha di fatto avvelenato anche l’intero ciclo biologico, animali e vegetazione compresi.

Parla con fermezza Jelica, mentre Ivan ci traduce in inglese: alle loro spalle una bandiera serba. Parlano con gli stessi occhi che ho incontrato in questi giorni, occhi chiari segnati dalla sofferenza e da quella dignità che non ti aspetti.
Finito il giro – molto breve in realtà viste le dimensioni dell’ospedale – e salutato tutto il personale, chiediamo a Jelica il significato della targa fuori dall’ospedale. E’ una targa della Comunità europea che ha donato loro qualcosa. Jelica sposta una tendina e tira fuori un defibrillatore. Questo è il dono della Comunità europea a un ospedale che copre il 20% del Kosovo. Dopo aver segnato tutto quanto, fatto delle foto e salutato calorosamente, ci avviamo verso Tomance. L’enclave serba di Ivan, la nostra guida di oggi.

Ivan ha 34 anni, è sposato e ha due bambini. La sua enclave, asserragliata in mezzo alle montagne, non ha la rete fognaria, per cui le acque reflue restano a cielo aperto provocando epidemie. Il suo sogno, ci confida, è quello di avviare una piantagione di “wallnuts”, di noci. E lui dice che ci riuscirà perché, appunto, è il suo sogno e per la sua famiglia sarà un lavoro più che dignitoso. Alla domanda “hai mai pensato di andartene via da qui?”, Ivan sorride e ci dice: “Ho qua due figli, la casa e il lavoro. Non ho nessuna intenzione di andarmene dalla terra di mio padre”. Ritorna in mente ancora Stefano Vernole, quando, nel libro già citato, dice: “Secondo le parole di una delle più sagge donne serbe, Isidora Sekulic. ‘la serbità non è né il pane, né la scuola né lo Stato: è il Kosovo. Il Kosovo è la tomba dove tutto è stato sepolto e la risurrezione viene allora attraverso la tomba””.

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