Lo produciamo noi o nasce in laboratorio?
Geni, mutazioni amminoacidi: è nelle innumerevoli sequenze genetiche e nelle pieghe della struttura molecolare delle sue proteine che si sta cercando la risposta sull’origine del virus SarsCoV2. Mentre il G7 sollecita una nuova indagine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), in attesa di ulteriori dati l’unica fonte utile di informazioni è lo stesso virus. Lo indica la rivista Nature, che nel suo sito presenta i punti a favore dell’una e dell’altra ipotesi.
“È una sfida: al momento non ci sono elementi sufficienti per sostenere l’ipotesi dell’origine naturale, come non ce ne sono per sostenere l’ipotesi della fuga da un laboratorio”, osserva Gianguglielmo Zehender ordinario di Igiene dell’Università Statale di Milano. Quello che è certo, aggiunge, è che “stiamo assistendo a qualcosa di mai visto prima in modo così diretto, ossia l’adattamento di un virus al suo ospite”. Finora, osserva, “non c’erano infatti gli strumenti che permettessero di fare una cosa simile, nemmeno nella pandemia di influenza del 2009”.
Tra i primi elementi a favore dell’ipotesi naturale c’è la grande somiglianza del virus SarsCoV2 con il coronavirus dei pipistrelli, gli animali noti per essere il più importante serbatoio naturale di coronavirus.
Non si è ancora individuato, però, l’animale in cui il virus dei pipistrelli si è modificato in modo da diventare infettivo per l’uomo e questo, secondo alcuni esperti sentiti da Nature, potrebbe essere un punto a favore dell’ipotesi di un’origine in laboratorio. “È anche vero, però, che non conosciamo il serbatoio naturale di molte altre infezioni”, osserva Zehender.
A favore dell’origine naturale c’è poi la stessa evoluzione del virus SarsCoV2. “All’inizio era poco trasmissibile, ma nel tempo abbiamo visto che ha imparato a trasmettersi facilmente”, osserva Zehender. Il virus accumula mutazioni e vediamo le sue varianti in azione: “Mentre si trasforma acquisisce nuove capacità, selezionando le mutazioni più efficaci”. È così che la variante alfa (l’inglese secondo la vecchia terminologia) ha finito per prevalere sulle altre.
Il fatto che dal gennaio 2020 si raccolgano le sequenze del virus ha permesso di spingere l’analisi a un livello di grande dettaglio, per esempio portando alla luce caratteristiche di alcuni amminoacidi che potrebbero far propendere per un’ipotesi o per l’altra. In entrambi i casi l’attenzione si concentra sulla proteina Spike che il virus utilizza per penetrare nelle cellule.
Per esempio, c’è chi vede l’indizio di una possibile origine in laboratorio in alcune osservazioni che indicano, sulla proteina, un sito attivato da un enzima della cellula umana chiamato furina, che non sarebbe presente su altri coronavirus. È anche vero, però, che “stiamo vedendo spesso delle mutazioni nel sito di legame al recettore: sono adattamenti del virus al loro ospite”, osserva Zehender.
“Posto che tutti dicono che non ci siano prove definitive né per un’ipotesi né per l’altra, mi sembra – rileva – che ci sia un certo accanimento, giustificabile, nella ricerca di elementi che indichino che l’origine venga da un laboratorio. Non vorrei – conclude – che questo facesse passare in secondo piano il problema più serio, ossia che siamo stati presi in contropiede da questa pandemia. Non dobbiamo fare questo errore: è una brutta storia che abbiamo affrontato con mezzi inadeguati e facendo degli sbagli”.