Occorre gente credibile per sostenere i nostri interessi
La crisi libica sembra complicarsi ogni giorno di più per l’Italia, la cui influenza sulle vicende della ex colonia è marginale come mai prima d’ora. Dopo la ratifica del memorandum tra Tripoli e Ankara sembra imminente l’arrivo a Tripoli di truppe regolari turche (secondo alcune fonti già presenti in prima linea): uno sviluppo carico di significati simbolici per il neo-ottomanesimo di Recep Tayyp Erdogan centodiciotto anni dopo lo sbarco a Tripoli del 1911 che permise a Roma di cacciare l’Impero Ottomano dal Mediterraneo Centrale. Del resto che gli interessi italiani siano nel mirino di Ankara era emerso chiaramente anche con l’intervento della flotta turca nelle acque cipriote assegnate all’Eni per l’estrazione del gas. L’estensione arbitraria della Zona economica esclusiva (Zee) turca e libica colpisce pure l’Italia impedendo la realizzazione del gasdotto EastMed che porterebbe nella Penisola il gas del Mediterraneo Orientale.
Le recenti dispute a questo proposito hanno visto l’Italia schierarsi al fianco di Cipro e Grecia, quindi anche del governo libico della Cirenaica le cui forze sono guidate dal generale Khalifa Haftar, nel condannare l’accordo tra Ankara e Tripoli che ieri ha chiesto formalmente l’intervento militare turco. Un aspetto che Erdogan ha subito sottolineato accusando “persino l’Italia” di voler legittimare il ruolo di Haftar. Di fatto il memorandum turco-libico ha fatto venir meno l’unico punto di convergenza rimasto tra Italia e Turchia, riposto nel sostegno al governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Sarraj.
A Misurata le manifestazioni di appoggio all’intervento militare turco hanno assunto toni anti-italiani ribaditi da alcuni media della Tripolitania. Iniziative probabilmente incoraggiate dai turchi, già da tempo ben presenti a Tripoli e Misurata con armi, intelligence e consiglieri militari, ma favorite anche dal distacco dalle vicende libiche dimostrato dall’attuale governo italiano. Tripoli nei giorni scorsi ha chiesto aiuti militari a cinque “paesi amici” (Italia, Usa, Regno Unito, Algeria e Turchia) ma solo Ankara ha risposto positivamente mentre la Farnesina ha ribadito “la soluzione alla crisi libica può essere solo politica, non militare”.
Uno slogan un po’ stantio che riduce ulteriormente l’influenza esercitata da Roma. La soluzione politica può nascere solo da una impasse militare che verrà determinato con le armi, cioè da un equilibrio tra le forze in campo. Se Haftar prendesse Tripoli o il Gna lo ricacciasse in Cirenaica la crisi si risolverebbe sul campo di battaglia.
Roma peraltro ha già soldati presentì in Libia: trecento all’aeroporto di Misurata (bersagliato dai droni di Haftar) per una missione sanitaria il cui significato oggi sfugge a molti, più ottanta marinai che nel porto tripolino di Abu Sitta coordinano e supportano la Guardia Costiera libica nel contrasto all’immigrazione illegale. Sobillare i sentimenti anti-italiani denunciando l’inconsistenza del ruolo di Roma al fianco di Tripoli o addirittura il “tradimento” attuato schierandosi con Haftar rientra certamente tra le priorità dell’agenda politica e militare turca in Libia.
A dare una mano ai programmi turchi per screditarci a Tripoli ha contribuito anche l’annuncio della prossima visita a Roma di Haftar, resa nota dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio al termine della sua missione-lampo in Libia in cui ha incontrato tutti gli interlocutori principali.
Grazie alla sua egemonica influenza sul Gna, Ankara potrebbe puntare a breve termine al ritiro dei militari italiani dalla Libia e successivamente ad acquisire, con proprie compagnie e a spese dell’Eni, le concessioni per l’estrazione di gas e petrolio in Tripolitania. Senza contare il ricatto che Erdogan potrebbe esercitare sull’Italia minacciando di lasciare via libera ai trafficanti di esseri umani anche sulla “rotta libica” come già minaccia di fare su quella balcanica.
Un contesto pericoloso che rende urgente, anche se tardivo, il tentativo italiano di riguadagnare terreno in Libia attraverso una proposta negoziale credibile e la nomina di un inviato speciale. Sul piano politico l’Italia punta sul ruolo di UE e partners europei attraverso la conferenza di Berlino di cui non è stata ancora fissata la data e a cui non è certo partecipino rappresentanti libici di rilievo.
Quanto all’incarico di inviato speciale, sarebbe un grave errore guardare a figure di ex politici o diplomatici come quelle recentemente riportate dai media: nomi noti in Italia ma sconosciuti in Libia di cui non si sono mai occupati.
Occorre invece una figura nota e possibilmente stimata da tutti, a Tripoli e Misurata come a Bengasi e Tobruk, tenuto conto che, come annunciato, l’inviato speciale subirà già la limitazione di rispondere al ministro degli Esteri invece che al presidente del Consiglio, circostanza che ne avrebbe reso più autorevole il suo ruolo presso i libici. Per tutte queste ragioni le figure più idonee per questo incarico sono l’ex ministro dell’Interni Marco Minniti e l’ex direttore dell’Agenzia informazioni e Sicurezza Esterna (Aise) Alberto Manenti. Il primo ha gestito da titolare del Viminale i rapporti con tutte le fazioni e le autorità libiche, incluse le tribù del Fezzan. Manenti, che è nato a Tarhouna (non lontano da Tripoli), ha diretto l’intelligence tra il 2014 e la fine del 2018 indirizzando tutta la complessa attività di relazioni sviluppata dai nostri servizi segreti in questi anni di continua emergenza in Libia.