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Democrazia e manette

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Un totalitarismo acclamato dai ciambellani

Solo il cinismo travestito da manierosa bontà di Fabio Fazio può presentare il cupo e prolungato grido dell’ex speaker della Camera inglese John Bercow, «Order!» («Ordine!»), come qualcosa di divertente e consolante. Quando lo sentii per la prima volta un mese fa, seguendo in diretta le sedute del parlamento britannico, era palpabile (e si leggeva sui volti di molti dei parlamentari) il fastidio per l’implicita, violenta minaccia. Innanzitutto quella della galera per il presidente del Consiglio, Boris Johnson, se non si fosse sottomesso alle richieste di Bercow. Associata però allo sbandierato gusto dell’esercizio del potere fino al limite della violenza, incurante dell’interesse dell’Inghilterra e della stessa Europa. Malgrado infatti ci fossero i voti sufficienti per approvare subito l’accordo che Johnson aveva concluso il giorno prima con 1’UE, Bercow mise all’ordine del giorno la trappola concordata con i conservatori ribelli a «Bojo» per rinviarne la discussione entro il 31 gennaio 2020.
Un mini colpo di Stato, di quelli da «democrazia totalitaria» cui ci stiamo ormai abituando in Occidente, patrocinati dalle massime autorità dello Stato per evitare il voto e l’elezione di un governo che corrisponda all’effettiva volontà popolare. Non riuscì completamente solo perché Johnson ebbe il fegato di far votare comunque la richiesta di elezioni subito (il cui esito non era assolutamente scontato), e di cercarsi ovunque i voti per poi vincerle, con un impegno e un lavoro massacrante, ottenendo la maggioranza più forte dai tempi di Margaret Thatcher. Bercow, con la sua prepotente intimazione di «Order», rauca e prolungata nell’aula di Westminster, non è dunque un caratterista da varietà, ma la più recente rappresentazione della sinistra «maschera del cattivo», molto importante nella storia inglese e nel teatro shakespeariano. A cominciare da Macbeth, pronto a rovesciare l’ordine del Regno e a tradire la fiducia del re pur di affermare la propria grandiosità per prenderne il posto.
Certo poi, quando i cattivi perdono, vengono puniti: Bercow oltre a non essere più speaker non è più stato neanche rieletto, e sta cercando di diventare una star della tv (attore efficace lo è, anche se questo da Fazio non si è capito). Di certo è figura molto controversa; ciò rende ancora più bizzarro, anche dal punto di vista politico, che la tv pubblica italiana inviti in prima serata il nemico numero 1 del primo ministro inglese appena eletto a furor di popolo. Tuttavia anche in Italia è appunto forte la corrente della democrazia totalitaria, che invece che su libere elezioni si regge sulla «volontà generale» di una parte importante dei suoi dirigenti politici e funzionari di partito di battersi contro un «nemico», esterno o interno, o entrambi. Alla faccia dell’inclusione, sbandierata continuamente, la democrazia totalitaria è fondata sulla rimozione degli avversari, da escludere non solo dal potere ma anche da ogni comprensione umana. In questi regimi, che pure si dichiarano democratici, il potere reale non è gestito dalle rappresentanze ufficiali ma da un «esecutivo dittatoriale che finge di non essere tale» come racconta lo storico Marcel Gauchet nel suo libro su Robespierre, L’incorruttibile e il tiranno (Donzelli). L’odio per il nemico è il principale combustibile che alimenta la macchina totalitaria. È ancora attualissimo il «non ti senti responsabile di non aver odiato i nemici della Patria?» rivolto appunto a Danton, futuro candidato alla ghigliottina, da un Robespierre in ansiosa ricerca di nemici da odiare in sostituzione delle idee rivoluzionarie, ormai esaurite e fallite una dopo l’altra.
L’ordine autoritario imposto dallo speaker Bercow ai deputati britannici (che l’hanno mandato a quel paese) è la moderna perversione della democrazia, raccontata bene nel libro Democrazia totalitaria. Una storia controversa del governo popolare (Donzelli) da Alessandro Mulieri, giovane docente di Scienze politiche in diverse università internazionali. All’origine c’è la profonda differenza tra la democrazia come unione di liberi, fondata dalle rivoluzioni anglosassoni rispetto alla democrazia di eguali come aspirava ad essere la rivoluzione francese, poi ripresa dai totalitarismi del Novecento, comunismo e nazismo. La contesa tra le due forme è tuttora d’attualità perché i partiti che si rifanno ai movimenti marxisti (come i laburisti di Jeremy Corbyn ad esempio, ma anche quelli italiani), non amano la libertà d’opinione. Resa ancora più difficile dalla difesa a tappeto fatta da questi movimenti verso i più svariati «diritti umani», spesso antagonisti gli uni con gli altri: se difendo i diritti dei lavoratori locali adotterò cautele verso l’immigrazione, e così via. I partiti di ispirazione liberale hanno come riferimento la maggiore limitazione possibile dell’invadenza dello Stato nella sfera individuale; per quelli di derivazione marxista è il contrario. Le differenze sono poi forti riguardo alle elezioni: i liberali le amano e tendono ad allargare anche la sfera della democrazia diretta, con spazi importanti a strutture federative e consultazioni e autonomie locali, i totalitari ne diffidano e tendono a centralizzare ogni potere nello Stato.
La differenza più evidente oggi, però, è che i sostenitori della democrazia «totalitaria», bene analizzata dallo studioso israeliano Jacob Talmon (come spiega Mulieri), tendono a fare votare il popolo il meno possibile, mentre i «liberali,» lo ritengono indispensabile. Il poco amante di Israele Jeremy Corbyn, ad esempio, aveva più volte rifiutato nuove elezioni, vistosamente evitate all’Italia anche nell’ultima presidenza di Giorgio Napolitano, che definì poi un «azzardo sciagurato,» il referendum sulla Brexit proposto da David Cameron. La sinistra oggi non ha fretta di sentire il parere del popolo, e ciò non contribuisce certo a renderla popolare. Preferisce piuttosto rassicurarsi mostrando la coreografia delle piazze piene, come ha fatto a lungo con le forze sindacali e rifà oggi (in miniatura) con il movimento delle sardine. Anche questo, però, è un altro aspetto della democrazia totalitaria, smascherata dal profondo pensiero della filosofa Hannah Arendt, presentato in questi recenti lavori (oltre che da Mulieri) da Adriana Cavarero, filosofa ed esponente del «pensiero della differenza femminile» in Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt (Cortina). Arendt amava la democrazia «plurale», aperta, con molte voci, proprio perché essa, come ricorda Cavarero, «esalta l’unicità di coloro che la compongono». Non sono le piazze piene o vuote che contano, ma i pensieri e i sentimenti personali di chi vi si reca (se ne ha). La democrazia plurale di Hannah Arendt non ha nulla a che vedere con quel «senso di superfluità tipico delle masse» che – dice Cavarero – «secondo lei costituisce il cuore più oscuro del totalitarismo e trova il suo compimento nei campi di sterminio».
Non proprio roba da riderci sopra a Che tempo che fa.

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