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E’ tutto un altro andazzo

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Se le femmine oggi sono meglio dei maschi girano sempre intorno alla mancanza essenziale del vir

 Lui è autorevole, lei prepotente; lui è persuasivo, lei troppo insistente; lui sciolto, lei esibizionista. È il pluripremiato spot Pantene sul doppio standard (novembre 2013): lo stesso atteggiamento è una virtù in un uomo, difetto in una donna. «Be strong and shine», sii forte e splendi, incita il marchio, con gioco di parole su “shine” che è insieme “eccellere” e lucentezza del capello. Per non parlare di Dove, pioniere della Bellezza Autentica, detentore dello spot più virale di sempre, (aprile 2013), in cui un esperto (ovviamente maschio) di identikit dell’Fbi mostra alle donne che non sono brutte come si dipingono. Oltre 114 milioni di visualizzazioni dopo un mese dal lancio: un record che sarà probabilmente superato dalla nuova réclame, Patches (aprile 2014), 33 milioni nella prima settimana, in cui una dermatologa invita un gruppo di donne ad indossare un patch per essere più belle: tutte ci cascano, poi lei rivela che è un placebo. Perché «la bellezza è uno stato mentale», anche se un quarto di crema idratante può aiutare. E ancora: le barrette al cioccolato Snickers, lo spot del gigante dei domini Internet GoDaddy andato in onda a febbraio al Super Bowl.

Perché alla fine se ne sono accorti anche i “mad men” della pubblicità, gli stessi che per decenni avevano ridotto la donna ad un oggetto: il femminismo oggi non è solo mainstream, ma anche una macchina da soldi, un grande business – e non a caso se ne riempiono la bocca uomini e donne che per le donne non hanno mai tifato.
Il femminismo vende, in libreria come nella moda: da Tel Aviv, dove il brand Comme Il Faut fa sfilare “donne vere” sotto l’insegna Equal/Unequal, agli slogan sulle T-shirt della Fashion Week di Sydney (“This is what a feminist looks like”, con cui ha posato pure Obama). Tanto che il Financial Times si chiede se in fondo top model emaciate, conigliette di Playboy ed emancipazione della donna non possano coesistere.
Ma se il femminismo è il nuovo filone d’oro del marketing, sono davvero femministi quegli spot? Se il valido sforzo di Pantene si è guadagnato il plagio d’autore di Sheryl Sandberg (nella campagna Ban Bossy), un’analisi del Guardian e una parodia scaricatissima di Patches coi gorilla denunciano invece come Dove in realtà sgretoli l’autostima delle donne prima di ricostruirla, intestandosi la loro legittimazione.
È la pseudo-psicanalisi: qualche statistica, un sottofondo musicale tristanzuolo (ci casca anche Pantene, con la cover di Mad World by Gary Jules), You Tube e il solito cliché che essere una donna è spesso odiarsi. O come ha scritto il Guardian, «un nuovo e migliore approccio alla parità di genere, con il 92% in più di hashtag e il 103% in meno di significato». Perché che le donne abbiano tutte e in ogni caso una cattiva immagine di sé è un presupposto sessista, e non a caso sulle pagine Facebook e You Tube del marchio dell’igiene personale di Unilever fioccano le critiche («Sottintendere che le donne odino se stesse per futili motivi non è legittimante, ma paternalistico e insultante. Smettetela di pseudo-psicanalizzarci per vendere il vostro sapone»).
Anche perché, sono davvero le donne a essere i critici peggiori di se stesse o l’industria della bellezza, dei media, della moda a renderle tali, coi loro standard inarrivabili?
Addirittura il New York Magazine ha definito Patches spazzatura, accusando Dove di dipingere le donne come sceme e sprovvedute (per dire: nessuna, nello spot, osa mettere in dubbio che si possa diventare più belle con un patch). La parodia è ancora più graffiante: «Sei cascata nel nostro bizzarro esperimento psicologico. Abbiamo dimostrato che non sei un mostro orribile. Dov’è il nostro Premio Nobel?».
Il rischio, insomma, è che certe pubblicità finiscano per inculcare proprio ciò contro cui sembrano battersi: che la bellezza è la cosa più importante, il primo metro per valutar le donne.
Quanto, del resto, fosse stereotipato l’approccio di Dove, lo rivelava già, a marzo dell’anno scorso, uno spot per la linea uomo Men + Care. Una parodia del più classico degli spot Pantene, dove un uomo, dopo aver usato uno shampoo da donna, si ritrovava con capelli lunghissimi, morbidi e lucenti che fanno “swoosh” ad ogni movimento della testa. La soluzione? Dove Men + Care, per capelli corti, ispidi, in una parola maschi. Del resto Unilever è anche la casa madre della Axe, i cui spot con donne-oggetto hanno fatto scuola.
Dove è in buona compagnia. Un altro genere di spot sedicente femminista è quello basato sul concetto del “sessismo positivo” (e già qui ce ne sarebbe). Come nella campagna di Snickers Australia (marzo 2014), dove un gruppo di operai dell’edilizia, invece dei soliti fischi e apprezzamenti volgari, alle donne che passano fa complimenti veri. «Quel colore le dona molto»; «Il tuo aspetto è solo una delle tante facce di te»; «Che cosa vogliamo? L’uguaglianza! Che cosa non vogliamo? La misoginia!». Perfetto, sì? Peccato che il claim sia «You’re not you when you’re hungry»: non sei te stesso quando hai fame. Che è offensivo per entrambi i sessi, perché sottintende che l’uomo, quando mangia la barretta e non ha più fame, si comporta come dovrebbe, e cioè gridando oscenità alle donne (e quindi che i maschi sono trogloditi e le donne vanno trattate come oggetti sessuali). Nope, sorry. Non sei femminista quando sfrutti il sessismo quotidiano per vendere una barretta al cioccolato. O un sapone.

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