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Ecco perché i camerati si sono rincoglioniti

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si bevono le tesi altrui e se le rivendono come proprie con tanta sicumera


Forse siamo meno intelligenti di quanto pensiamo. Ma non è colpa nostra. Il responsabile è Google. O, meglio, tutti i motori di ricerca disponibili online. Da colossi come Yahoo! a DuckDuckGo, passando per Bing. Perché, secondo uno studio dell’Università di Yale, appena pubblicato sulla rivista dell’American Psychological Association, il fatto di poter reperire ogni informazione sul web ci porterebbe a sovrastimare le nostre capacità cognitive. Fino a farci credere di poter comprendere qualsiasi argomento, o quasi, solo perché è a portata di clic. Invece no. Non basta smanettare un po’ per conquistare il sapere. Al contrario, avvertono i ricercatori statunitensi, “un’accurata conoscenza personale è difficile da conseguire e Internet potrebbe rendere il compito persino più difficile”.
Google, dieci trucchi per la ricerca perfetta
La Rete è un ecosistema potentissimo, dove puoi inserire qualsiasi domanda e hai potenzialmente accesso all’intero mondo dello scibile umano”, ha commentato al Telegraph Matthew Fischer, coordinatore dell’analisi firmata con Mariel K. Goddu e Frank C. Keil. “Quando però le persone devono far leva sulle loro esclusive capacità, tendono a essere follemente inaccurate riguardo a ciò che sanno e a quanto sono dipendenti dal web”. Aggiunge lo psicoterapeuta Alberto Rossetti a Repubblica.it: “Bisognerebbe impegnarsi a distinguere tra una notizia che approfondiamo, facendola diventare nostra, e una che leggiamo solo superficialmente. Un esercizio difficile. Ma necessario se, ad esempio, vogliamo evitare la proliferazione delle bufale virali. Invece, l’impressione è che la nuova ricerca rispecchia in maniera perfetta ciò che viviamo quotidianamente: tutti parlano di tutto, tutti sono esperti di tutto, pure quando non hanno le competenze per discutere in profondità di certe tematiche”.
L’INCHIESTA: COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB
Dalla realtà alle stanze dei laboratori il salto è breve. E più nel dettaglio, sotto l’occhio degli scienziati, sono finite oltre mille cavie che il team di Yale ha reclutato online e coinvolto in ben nove esperimenti. Dei test diversi, con un unico comune obiettivo: capire in che modo l’opportunità di cercare online dei chiarimenti, di qualsiasi tipo e in qualsiasi momento, incide concretamente sulla percezione delle nostre facoltà intellettive. Un tema non da poco, dato che ormai Internet è diventato uno snodo centrale per l’acquisizione di news nella vita di tutti i giorni. Il risultato dei questionari è per certi versi sorprendente. “Il valore che ciascuno ha auto-attribuito alla propria abilità di rispondere alle domande, è cresciuto dopo aver cercato spiegazioni sul web per un altro, e non correlato, compito”, si legge nella parte iniziale dello studio. E poi si specifica un aspetto ancora più interessante: “L’effetto persiste quando le domande non hanno avuto risposta, rimanendo valido persino se il responso ha fallito nel fornire informazioni utili, o se non le ha fornite affatto”.
In altri termini: chi durante i questionari ha avuto la possibilità di sbirciare su Google & Co. ha creduto di possedere un bagaglio di competenze più alto. Non solo: pure un cervello più attivo della media. E di potersela cavare meglio degli altri che hanno acquisito le nozioni in modo tradizionale: ascoltando un maestro, un amico, o sgobbando sui libri. Una fiducia talmente forte da non abbandonarli anche nel momento in cui l’aspettativa si è rivelata una pura illusione, che non ha poi trovato alcun fondamento negli obiettivi raggiunti. Ma la cui ragione d’esistere sembra essere confinata “all’atto della ricerca in sé”. Basterebbe, insomma, esser sicuri di potere contare sul supporto della tecnologia per sentirci super intelligenti. Fin troppo. Il motivo? “Le persone”, proseguono i ricercatori nel report, “confondono l’accesso all’informazione con la personale comprensione dell’informazione. E collocando, per sbaglio, la conoscenza esterna nella loro testa, tendono a esagerare il lavoro intellettuale che sono in grado di fare”. Un’inclinazione che, stando a ciò che suggeriscono gli psicologi, è molto evidente tra i più giovani, abituati ad avere gli smartphone in tasca. E a tirarli fuori in caso di bisogno.
Non è la prima volta che le modalità di fruizione dei contenuti online, possibili grazie ai motori di ricerca, diventano oggetto di una discussione scientifica poco lusinghiera. Già nel 2010 uno studio targato Columbia University aveva anticipato la tendenza degli internauti a considerare i computer come una sorta di memoria esterna. Con una conseguente mutazione della propria capacità di ricordare. Una caratteristica chiamata “effetto Google” che ora sembra trovare una nuova conferma e nuove sfaccettature. Qualche soluzione per arginare gli effetti collaterali della cultura a portata di pochi clic? “Caro nipote, studia a memoria” è stato l’appello lanciato da Umberto Eco nel gennaio del 2014. È passato un anno, ma il suggerimento è ancora valido. Sempre di più.

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