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Gli americani in assetto di guerra

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E’ sempre più alta la tensione tra Washington e Teheran. Una tensione che potrebbe far esplodere la polveriera mediorientale. Il Dipartimento di Stato Usa ha ordinato al personale non essenziale dell’ambasciata americana a Baghdad e del consolato a Erbil di lasciare l’Iraq. Lo rende noto l’ambasciata Usa nel Paese su Facebook, aggiungendo che i normali servizi per i visti saranno temporaneamente sospesi e che il governo americano ha limitato la capacità di fornire servizi di emergenza ai cittadini Usa in Iraq. L’ordine riguarda il personale impiegato all’Ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad e al Consolato degli Stati Uniti a Erbil. Il provvedimento viene giustificato con la “limitata capacità di fornire servizi di emergenza ai cittadini statunitensi in Iraq” da parte del governo di Washington.

A preoccupare gli Stati Uniti è però l’escalation degli ultimi giorni con l’Iran che rischia di mettere in pericolo i cittadini americani presenti nella regione. Un rischio che I Paesi Bassi e la Germania hanno sospeso le loro missioni in Iraq, oggi, a causa delle crescenti tensioni nella regione. È stato appreso per la prima volta che l’esercito tedesco ha deciso di sospendere le sue operazioni di addestramento dei militari iracheni, secondo Deutsche Welle, citando il ministero della Difesa tedesco. Secondo un portavoce ministeriale, Berlino ha ricevuto segnalazioni di possibili attacchi sostenuti dall’Iran. Ha aggiunto che non ci sono state “minacce concrete” alle truppe tedesche e che il programma di addestramento potrebbe riprendere in futuro. Secondo i media, circa 60 soldati tedeschi sono di stanza a nord di Baghdad per addestrare le forze di sicurezza irachene. Altri cento soldati si trovano nelle regioni curde del nord del Paese. Poco dopo, i Paesi Bassi hanno seguito le orme della Germania e hanno deciso una minaccia alla sicurezza per sospendere la sua missione che fornisce assistenza alle autorità irachene, riferisce l’agenzia Reuters. Il personale militare olandese sta attualmente contribuendo a formare le forze irachene.

Tutto questo nel giorno in cui l’Iran ha formalmente sospeso alcuni dei suoi obblighi previsti dall’accordo sul nucleare del 2015, in esecuzione di quanto annunciato una settimana fa dal presidente Hassan Rohani nel suo ultimatum ai restanti partner per mantenere in vita l’intesa dopo il ritiro unilaterale degli Usa. Lo riferiscono fonti dell’Organizzazione per l’energia atomica di Teheran, citate dall’Irna. Gli obblighi previsti dal piano d’azione globale congiunto (Jcpoa) che sono stati interrotti riguardano le riserve in eccesso di uranio arricchito e acqua pesante, che non saranno più esportate per limitarne la quantità a disposizione dell’Iran. Teheran ha precisato che se entro 60 giorni raggiungerà un accordo con i partner, tornerà a rispettare questi limiti sulle riserve come previsti dall’intesa. L’Iran supererà il momento difficile che sta vivendo grazie “alla solidarietà e all’unità nazionale, alla resistenza, alla pianificazione e a una migliore gestione delle risorse”, facendo così fallire il piano degli Stati Uniti di metterlo in ginocchio. Se ne è detto convinto il presidente iraniano Hassan Rohani, in un incontro con la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, insieme a membri del suo governo, parlamentari e attivisti.  

Nel suo discorso, citato dall’Irna, Rohani ha fatto riferimento in particolare al contributo allo sviluppo che giungerà con l’inaugurazione delle 15 fasi del giacimento di gas South Pars, il più grande al mondo, che è condiviso con il Qatar e secondo le stime raddoppierà la produzione di gas di Teheran. Il presidente iraniano ha quindi sottolineato l’importanza di altri progetti per lo sviluppo dell’agricoltura, in modo da ridurre la dipendenza dalle importazioni. Tra Iran e gli Stati Uniti non ci sarà alcuna guerra, perché il confronto tra i due Paesi “non è militare”. In una strana inversione, dei ruoli, a sostenerlo è il “duro” Khamenei. “Non ci sarà una guerra, né noi, né loro (gli Usa, ndr) cercano la guerra. Sanno che non è nei loro interessi”, ha detto Khamenei rivolto ad una platea di alti responsabili del regime spiegando che “il confronto attuale è un confronto di volontà e sicuramente il popolo iraniano ne uscirà vincitore”, ha aggiunto. “Negoziare è tossico – ha proseguito la Guida suprema riferendosi all’accordo nucleare – fino a quando gli Stati Uniti continueranno nella stessa azione e negoziare con l’attuale governo americano è doppiamente tossico”. Come è tossico il clima che si respira in questi giorni nel Golfo Persico. Il petrolio saudita è finito nel mirino di un nuovo attacco, in un’accelerazione di eventi che fa sospettare una regia occulta, forse alla ricerca di un casus belli contro l’Iran.

A meno di quarantott’ore dal misterioso sabotaggio delle petroliere all’imbocco del Golfo Persico, droni aerei hanno colpito due stazioni di pompaggio della East-West Pipeline, oleodotto che offre una preziosa via di trasporto alternativa per il greggio in caso di problemi nel Golfo Persico perché attraversa l’Arabia Saudita da Oriente a Occidente, fino al porto di Yanbu sul Mar Rosso. Nello stretto di Hormuz, sulle cui sponde affacciano l’Iran da un lato e gli Emirati Arabi Uniti e il sultanato dell’Oman dall’altro, transitano ogni anno 2.400 petroliere. Si tratta innegabilmente di uno dei punti nevralgici del pianeta. La tensione in ogni caso sta montando a livelli sempre più pericolosi. I servizi segreti americani, secondo un funzionario Usa sentito dalla Reuters, si sono ormai convinti che entrambi gli attentati contro il petrolio saudita – quello di ieri e quello di domenica – siano da ricondurre a gruppi filoiraniani, se non addirittura a una responsabilità diretta della Repubblica islamica. Tra i principali sospetti la fonte cita le milizie sciite attive in Iraq e appunto gli Houthi dello Yemen. In un messaggio televisivo ieri mattina questi ultimi avevano in effetti rivendicato un attacco con sette droni contro obiettivi petroliferi sauditi (che però non avevano identificato).

Alcuni analisti dubitano però che il gruppo sia in grado, per dotazione di armamenti e capacità di pianificazione, di realizzare un attentato così sofisticato. Se lo scontro tra l’Iran e gli Usa si dovesse inasprire, Israele potrebbe subire un attacco diretto da Teheran o dai suoi alleati. E’ l’allarme lanciato dal ministro israeliano Yuval Steinitz, vicino al premier Benjamin Netanyahu. “Nel Golfo la situazione è sempre più calda. Non escludo che l’Iran possa chiamare in causa Hezbollah e la Jihad islamica a Gaza o anche che provino a lanciare missili su Israele”, ha sottolineato. “ In questa ottica, l’annuncio, fatto nei giorni scorsi da parte del Pentagono che gli Stati Uniti stanno schierando una batteria antimissile Patriot in Medio Oriente non ha nulla di difensivo, nonostante nella nota del Pentagono si motivi questa decisione per “scoraggiare” ulteriormente le minacce dall’Iran.

La strategia è quella della dimostrazione di forza. Forza militare. Il ministro della Difesa ad interim, Patrick Shanahan, ha presentato a Donald Trump un aggiornamento del piano militare che prevede l’invio di un massimo di 120.000 soldati americani in Medio Oriente nel caso in cui l’Iran dovesse attaccare le forze americane o accelerare sulle armi nucleari. Lo riporta il New York Times citando alcune fonti, secondo le quali la revisione e l’aggiornamento del piano riflette la linea dura del consigliere alla sicurezza nazionale John Bolton, falco su Teheran. Il New York Times racconta di una riunione – di giovedì scorso – dei principali consiglieri per la sicurezza in cui il segretario alla Difesa a interim, Patrick Shanahan, ha presentato un piano militare aggiornato che prevede l’invio delle truppe qualora l’Iran dovesse attaccare le forze americane o accelerare il lavoro sulle armi nucleari. L’aggiornamento, che porta la firma dei falchi guidati dal consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, non invocano un’invasione di terra dell’Iran, che richiederebbe un numero maggiore di truppe, hanno spiegato i funzionari sentiti dal Nyt.

Tuttavia si tratta di una forza che si avvicina molto a quella impiegata da George W. Bush per l’invasione dell’Iraq. E come sull’Iraq oggi è l’Iran il terreno di scontro tra Stati Uniti e Russia. Su questo versante (come peraltro su quello venezuelano), la missione di ieri a Sochi del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, si è rivelata fallimentare. “La Russia non è un pompiere, non possiamo andare in giro per il mondo a spegnere i focolai di crisi, sentenzia Vladimir Putin a proposito della crisi iraniana, “scatenata dal ritiro degli Stati Uniti” dall’accordo sul nucleare. “Ho consigliato all’Iran più volte di non ritirarsi dall’accordo perché in questo modo l’opinione pubblica mondiale si dimenticherà chi ha scatenato la crisi”, ha aggiunto il capo del Cremlino sottolineando che l’Europa “non può salvare l’accordo”. Il messaggio è chiaro: solo la Russia può farsi da garante di un nuovo accordo con Teheran, in cambio di una “Jalta mediorientale” con Vladimir Putin come protagonista assoluto.

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