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Il futuro in pantofole

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Andreotti sull’avanguardia finiana: “già dato. Quarant’anni fa”

A Fini e ai finiani si può perdonare tutto. La spocchia ingiustificata, l’incoerenza palese, l’opportunismo plateale, persino l’appropriazione indebita del termine destra. E si può essere addirittura disposti a cercare di capire il tradimento badogliano di cui si sono macchiati. Si possono assolvere e comprendere per tante cose. Ma non questa. Non che s’approprino di un passato che non gli spetta. Si tengano l’appartamento di Montecarlo, ma giù le mani dalla sacra parola “Futurismo”.
Passatisti, decadenti e pedanti, ecco cosa siete. Altro che Futuristi. Al massimo futuribili, se sopravvivrete all’estate.
Che Fini e i finiani non si permettano di inzaccherare la memoria dei Marinetti, dei Balla, dei Boccioni, dei Depero. Zitti, voi che esagerando potete chiamarvi Bocchino, o Della Vedova, o Lamorte.
“Ebbene sì, chiamateci futuristi. Perché è un appellativo che raccoglie un’eredità alta, richiamando con immediatezza alla mente un fervore d’idee, un movimento di azioni, un brulicare di pensieri che caratterizzarono anni intensi oltre misura”, ha scritto sul periodico online della Fondazione Farefuturo il wagneriano Filippo Rossi, un nome così anonimo nella sua banalità che nel movimento di Marinetti&compagni al massimo lo avrebbero mandato in giro a volantinare il Manifesto dei musicisti futuristi di Francesco Balilla Pratella, altro che Ffwebmagazine. La guerra come igiene del mondo, all’epoca, andava benissimo. E oggi un bell’oscuramento telematico come antidoto alle futur-cazzate, no?
“Dei futuristi e di quella stagione febbrile di artisti, creativi e letterati – scrive Rossi (quello che il 25 aprile scorso sul suo blog ha messo “Bella Ciao”) – rivogliamo la forza sfrontata di andare verso il futuro senza paura, senza il terrore immobile dei reazionari di ogni epoca. La lucida follia di essere avanguardia”. E questo proclamato dalla “testa pensante” di un gruppo parlamentare che un minuto dopo che si era formato era già più vecchio, per metodi e tatticismi, della Democrazia Cristiana, tanto che Andreotti quando ha saputo del rendez-vous tra Fini, Casini, Rutelli e Lombardo ha commentato: “Già dato. Quarant’anni fa”. Sono così all’avanguardia, questi “futuristi”, che il loro domani è già preistoria.
“Di quella stagione – scrive Rossi – ci rimane la logica dell’azzardo. Del coraggio. Della sfida. Dell’avventura”. E questo promulgato dalla penna digitale di un’associazione para-parlamentare che, come dirompente gesto d’esordio, cosa ha scelto? L’astensione. Cioè decidere di non decidere. Talmente rivoluzionari che il loro passo è l’immobilismo. Il loro programma il bizantinismo. La parola d’ordine è “Aspettiamo”. Filippo Tommaso Marinetti i finiani li avrebbe presi a calci nel culo da qui al chiaro di luna.
“Ebbene sì – ripete Rossi – chiamateci futuristi. Ma di un futurismo pacifico, pacificato, liberato, liberale e democratico. Postmoderno. Riformista”(!!!………………………).
E questo richiesto da un manipolo di post-fascisti che adesso vogliono farci credere alla favola di una destra moderna, laica, europea e sarkozysta e che fino a l’altroieri marciavano compatti dietro a un duce alto, allampanato e con gli occhiali a goccia inneggiando di volta in volta al corporativismo almirantiano, al rivoluzionarismo rautiano e al conservatorismo di Michelini. Un giorno minacciando l’ostruzionismo anti-democratico e antisistema, e il giorno appresso, di fronte all’inizio dell’ondata extracomunitaria, paventando lo spettro di un’Italia meticcia. I veri futuristi magnificavano – rigorosamente al maschile, altro che quote rosa – “un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, più bello della Vittoria di Samotracia”. Almeno vi tirasse sotto tutti, alla prossima mozione di sfiducia.
Luigi Mascheroni

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