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Il grande errore sovranista

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Perché, pur partendo da presupposti abbastanza corretti, un’area si è infilata da trent’anni in un vicolo cieco ed è afflitta da impotenza

Esistono intellettuali, ricercatori e pensatori sovranisti di qualità. Non in Italia dove tutto ciò che attiene alla politica è ridotto ad avanspettacolo di basso livello. E, tranquillizzatevi, neppure in Russia dove c’è solo una pesantezza infinita legata a una tristezza cosmica.
Se ne trovano in varie lande: Francia, Inghilterra, Svizzera, America Latina, e forse altrove. Le loro analisi critiche del sistema mondiale sono solo lontane parenti delle raffigurazioni primitive e rozze che se ne fanno la destra terminale e il populismo occidentale, capaci di rendere ridicolo anche quello che in origine non lo era e di trasformare il tutto in un lamento impotente.
Eppure anche essi, che avrebbero gli strumenti intellettuali per assumere un altro ruolo, si sono infilati in un vicolo cieco per colpa di un errore d’impostazione gravissimo.

Il sovranismo prese forma dopo la caduta del Muro di Berlino

e l’implosione del feroce pupazzo russo, il miglior stabilizzatore dell’imperialismo americano mai esistito.
Il crollo moscovita fece venire meno la logica bipolare che consentiva la miglior governance mondiale e da allora sono partite le mutazioni della sinistra in senso global e dei diritti civili (Open Society) mentre si lavorava strenuamente a livello di intelligences per creare la nuova “minaccia” che avrebbe sostituito, nel comportamento e nel ruolo, quella sovietica: il pericolo islamico.
Si prese a parlare, a torto, di progetto di governo mondiale, quando la governance non solo bastava e avanzava ma era – ed è – molto più solida ed efficace. La caduta della maschera della guerra fredda (che oggi si prova a riproporre sfruttando la stupidità cronica del Cremlino), per la tenuta psichica delle masse necessitò di minacce interne (guerre civili, epidemie) ed esterne (prima che la Russia riprovasse a resuscitare uno schema desueto, questa era il terrorismo, non a caso oggi in sordina).

Paul Valéry
celebre poeta francese a cavallo tra il XIX e il XX secolo ebbe a dire “Ciò che è semplice è falso, ciò che è vero è inutilizzabile”.
Non si può governare una massa di sudditi esprimendo la complessità, ma solo dei temi semplici e coinvolgenti, creando costantemente una situazione di ansia, nell’irrisolto, e offrendo utopie a breve portata. Così è stato fatto, almeno dal 2001 ad oggi.
Ma non è un complotto, è una tecnica adatta alla cosiddetta post-democrazia, che poi è un’ultra-democrazia dell’impotenza che si risolve sempre in gestioni autoritarie e totalitarie, sia pure con il sorriso buonista.

Il madornale errore dei sovranisti
fu quello di ritenere che tutto ciò fosse una manovra dell’Iperclasse per esautorare il popolo, da cui poi venne partorita la barzelletta dello scontro popolo/élite.
Le cose non stanno affatto così, in quanto i presunti popoli sono masse che chiedono guinzaglio e museruola e non si stanno affatto facendo ingannare, tutt’altro!
Perfino quando inveiscono contro le autorità politiche, nel loro assemblearismo ultra-montagnard, esse richiedono interventi tirannici.
Ma anche perché quella che si definisce Iperclasse è comunque interpretata in modo riduttivo e rozzo. Alcuni dei presupposti sovranisti sono al tempo stesso veri e falsi. Sicuramente l’Iperclasse risponde a ideologie e perfino a confessioni particolari che influiscono non poco sul messaggio politico e sociale e sull’assetto culturale. Tuttavia è sciocco pensare che le migrazioni di massa derivino solo da questo e nulla abbiano a che vedere con la demografia e con la comunicazione moderna, o che l’ideologia ecologista che vuole trasformare la stessa economia, non abbia nulla a che vedere con le risorse energetiche e con la nuova geoeconomia che ne deriva.

L’albero è nel germoglio
I sovranisti hanno preso una cantonata perché sono reazionari e, come tutti i reazionari, anche quelli intelligenti, posseggono una visione statica della realtà: si soffermano quindi sugli attori, sui gestori del potere, affermando, giustamente, che esso prescinde dalla dialettica politica istituzionale e dai confini geografici statali. Dall’altro capo i progressisti percepiscono tutto in movimento, si soffermano sulle dinamiche e non danno sufficiente peso a chi tiene le redini.
Nessuna di queste culture politiche riesce mai a vedere l’insieme; manca ad entrambe la Sintesi (dell’et et) tipico delle rivoluzioni o la mediazione delle culture di governo. Che poi si possono fondere tra loro come insegna l’Italia del Ventennio.
Così per i progressisti il processo è irreversibile e per i reazionari va bloccato.
Due modi uguali e contrari di alzare le mani e di non contare nulla.

Iperclasse
L’assunto per il quale ci sarebbe un’Iperclasse coesa e ostile al resto del mondo è molto discutibile.
La divaricazione anche culturale e formale tra essa e le masse di sudditi è in gran parte effetto dell’epoca. La sua coesione è un’esagerazione. Indubbiamente ne esiste, come in ogni epoca e in ogni situazione, una in difesa dei privilegi, ma per tutto il resto intervengono guerre intestine a dir poco feroci, come sempre è avvenuto nella storia.
Peraltro la decomposizione dell’architettura sociale borghese rende più ardui la formazione e il ricambio generazionale. Ragion per cui la partita mai come oggi si gioca sulla formazione delle élites, che è la sola cosa che dovrebbe interessarci. Un élite capace di gestire altrimenti dei processi epocali, non illusa di fermare il tempo e di tornare a uno ieri peraltro non elettrizzante.
Lo scrivevo ventuno anni fa ne Il nuovo ordine mondiale tra imperialismo e Impero.
Ma non può accompagnarsi alle fossilizzazioni reazionarie.

La tentazione sovranista
non ha solo il difetto di essere campata in aria, non tanto per i presupposti sfocati quanto per le  conclusioni sballate, ma quello ben più grave di assumere il ruolo di sabotaggio e di zavorra all’interno delle nazioni dove si manifesta. Qualsiasi fenomeno si tratti di gestire (pensiamo alla new economy, al green), se non si è in grado di assumerlo modificandolo ma si cerca di opporvi attrito, l’unico risultato che ne consegue è di avvantaggiare competitors che non hanno questo problema o lo sormontano in due secondi, tipo Usa e Cina, lasciandoci dietro alle spalle.
Nulla è nella sostanza più nemico della sovranità del cosiddetto sovranismo che non a caso ha voltato le spalle all’idea di Europa. Magari cavandolsela dialetticamente con il ricorso risibile a qualcosa che non accadrà mai, come il volerne fare un’altra domani, invece di combattere oggi in questa, per questa e contro parte di questa.

Ci dicono che la Ue è la caricatura dell’Europa
che non è la nostra, che ne è la negazione. Ma non è questa la nostra Italia e, folclore neoborbonico a parte, nessuno si sogna di dire che non possa essere cambiata. Chiediamoci perché quando si parla di Ue è così frequente che venga affermata questa sciocchezza. Se si diventa anti-europei, in primis si abbandona il mito, in secundis non si milita a favore del domani della nostra stirpe, della nostra terra e della nostra civiltà, in tertiis si diserta non solo qualsiasi impegno rivoluzionario ma qualunque ruolo concreto.
Questo è l’effetto dell’errore d’impostazione che abbiamo denunciato: lo smarrimento del senso del movimento. Mancando il quale non si può concepire la sola cosa viva, fattibile e creativa esistente, che è modificare il movimento, come insegna qualsiasi, e ribadisco qualsiasi, esperienza rivoluzionaria della storia.

L’equivoco sovranista è un vero e proprio siero paralizzante
Dal primo assunto sbagliato, che è l’unicità e la compattezza della classe dirigente, deriva il ripiego nella marginalizzazione e nella ghettizzazione con effetto prediche alla Savonarola. Ne sussegue la scemenza di voler svegliare un popolo inteso come ingannato, capace e disposto ad esercitare una sovranità dal basso, in virtù della quale ci si aggrappa ad una rediviva superstizione democratica, improponibile, fuori tempo e assolutamente contrastante con la cultura destroradicale che se ne appropria nella sua imbarazzante fase terminale.
Priva di mito, infettata da spirito altrui, avviata verso l’irreale e l’impossibile, palesemente impotente, la disinterpretazione sovranista comporta delle immancabili reazioni emotive allo scacco: la disillusione e la rabbia. Senza capire che il modo in cui si vedono le cose è falsato da premesse sbagliate, visto che il popolo non si sveglia e la classe dirigente non si arrende, invece di operare su se stessi per modificare atteggiamenti e comportamenti, si finisce immancabilmente con il decidere che finché non crolla tutto (implosione, convergenza delle catastrofi, avvento di un dominio esterno) nulla può cambiare e si finisce così per il tifare per ognuna di queste eventualità, non accorgendosi, o non volendosi accorgere, che questa è la riprova più evidente del proprio fallimento. Perciò, per non agire su se stessi e per non mettersi in discussione, tutto diventa meglio di qui, anche ciò che è oggettivamente e incontestabilmente peggio.

La fascinazione verso
modelli rozzi, brutali, incompiuti, del medesimo sistema mondiale, sempre più interdipendente, è  qualcosa per la quale si finisce con il perdonare qualsiasi porcheria a chi dovrebbe abbattere le mura in cui il sovranista ha la convinzione di essere stato rinchiuso. Al punto di tradire simboli, legami, riferimenti storici, fino a giustificare la “vittoria patriottica” russa del 1945 o a provare attrazioni esotiche per modelli efficaci ma soffocanti come quello cinese. Perché tutto sarebbe meglio di qui.
La verità inconfessata è perché qui non si riesce a fare nulla e ciò non perché ce lo impediscano scientificamente, come pretendiamo, dato che a stento potremmo mettere in crisi una riunione condominiale, ma perché, abbagliati dall’errore reazionario con il quale il sovranismo ha voluto trarre le conclusioni di premesse non del tutto sbagliate, ci si è impantanati nelle sabbie mobili, annullando le nostre forze vitali.

Mettersi in gioco
Come affermavo più su, e come ripeto da decenni, la partita mai come oggi si gioca sulla formazione delle élites, che è la sola cosa che dovrebbe interessarci. Un élite capace di gestire altrimenti dei processi epocali.
Verso questo obiettivo si deve tendere, e per questo vanno recuperate, capitalizzate, ma rese efficaci e non paralizzanti, le premesse analitiche da cui partì il sovranismo in fasce, perdendosi in seguito per la tara rezionaria che abbiamo constatato.
Ma per fare questo dobbiamo essere disposti a metterci in gioco e ad abbandonare gli atteggiamenti da predicatori, gli schemi astrusi e i dogmi incapacitanti che abbiamo nutrito come scemi nell’ultimo trentennio.

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