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La grande abbuffata

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Breve storia delle privatizzazioni in Italia e delle origini del conflitto del partito di De Benedetti contro Berlusconi

Si chiude così la breve intervista fatta lunedì dal corrispondente da New York, Maurizio Molinari, a Giuliano Amato per La Stampa riguardo le accuse lanciate dall’attuale premier riguardo la vicenda Sme. Ma cosa ci va a fare Amato alla sede del CFR, pensatoio geopolitico che fissa gli obiettivi della politica estera americana nonché principale consorteria internazionale dell’alta finanza, legato al Bilderberg Group e alla Commissione Trilaterale? Semplice, è il responsabile per la situazione italiana all’interno di una task-force sull’Europa co-presieduta da Henry Kissinger e dal rettore di Harvard, Lawrence Summers. Buono a sapersi, visto che Amato è anche vice-presidente della Convenzione Europea, organismo chiamato a scrivere la futura Costituzione UE e presieduto dal massone Valerie Giscard D’Estaing, emulo di quel Monnet che affossò il sogno di De Gaulle e consegnò il futuro dell’Europa nelle mani degli Stati Uniti. Detto questo, il fatto che Amato non abbia niente da dire o non ricordi (altra versione venduta ai giudici in passato) nulla della vicenda Sme e della successiva svendita del comparto alimentare italiano alle multinazionali straniere lascia stupiti, soprattutto alla luce delle sue attuali frequentazioni e delle amicizie consolidate nel tempo. Torniamo un attimo indietro e proviamo a rileggere la storia.

L’ACCORDO SME E IL PATTO PRODI-DE BENEDETTI

Il processo sulla fallita cessione della Sme negli anni ‘80 che si celebra a Milano è per molti versi surreale. Sul banco degli imputati c’è il presidente del Consiglio in carica. Tra i testimoni vi sono il suo predecessore (ora vicepresidente della Costituente europea) e il premier del ‘96 (ora al vertice dell’Europa). Tre premier per un unico dibattimento che rischia di passare agli annali come la caricatura più efficace della “rivoluzione giudiziaria italiana”, la fotografia più chiara di che cosa sia stata la stagione di Tangentopoli. Per capirlo basta esaminare i fatti. Dietro la sigla “processo Sme” c’è la storia della mancata vendita della holding alimentare dello Stato, la Sme appunto, alla Buitoni, ai tempi di Carlo De Benedetti. Romano Prodi, allora presidente dell’Iri, firmò un accordo di vendita con De Benedetti per 393 miliardi. Il premier Bettino Craxi si oppose perché giudicava il prezzo irrisorio. Negli stessi giorni un’altra cordata avanzò una proposta economica più vantaggiosa. Della cordata facevano parte imprenditori del settore come Barilla, Ferrero e la Fininvest dell’amico di Craxi, Berlusconi.

Il ministro delle Partecipazioni Statali ordinò di valutare le nuove offerte. De Benedetti cercò di far valere in giudizio il suo preaccordo. Prodi e Amato, sia nel 1985 sia oggi (al di là delle loro “amnesie” largamente tollerate dal presidente del processo), ammisero che senza autorizzazione governativa il precontratto non poteva essere valido. Il giudice Filippo Verde sentenziò l’inefficacia dell’accordo. Gli altri gradi di giudizio confermarono.

Fine? Neanche per sogno. I pm milanesi sostengono che la sentenza fu comprata da Berlusconi. Non si spiega, però, che vantaggi ottenne la Fininvest. Chi ne beneficiò fu lo Stato che dalla vendita della Sme (ad altri, nel ‘93) incassò duemila miliardi in più. Il reato imputato al Cav. appare del tutto cervellotico. Veniamo ai fatti. Il 19 luglio 1986, una sentenza della prima sezione del tribunale civile di Roma apre il caso. Il contratto per la cessione della Sme, la finanziaria alimentare nelle mani dello Stato, alla Buitoni di Carlo De Benedetti è sostanzialmente nullo. La privatizzazione di uno dei bocconi più appetibili della presenza pubblica nell’economia italiana prende un’altra direzione. Quindici mesi prima, il 29 aprile del 1985, l’allora presidente dell’Iri (poi presidente del Consiglio e attuale presidente della Commissione europea) Romano Prodi e il presidente della Buitoni avevano trovato un accordo: Buitoni acquistava la partecipazione dell’Iri nella Sme per 497 miliardi di lire (256 milioni di euro di allora). È un passaggio chiave che conclude un’operazione iniziata da De Benedetti un anno prima.

Con un audace colpo di scena, l’ingegnere dell’Olivetti ha bruciato sul tempo i francesi di BSN Gervais Danone, sicuri si avere l’affare in tasca grazie all’appoggio di Mediobanca, e si è assicurato la Buitoni. Un gruppo la cui situazione finanziaria non è fiorente ma che già a fine ‘85 metterà a bilancio un attivo di 448 milioni di lire rispetto ai forti passivi del biennio precedente e che conta su un fatturato consolidato di 1176,6 miliardi di lire. Il disegno di De Benedetti è semplice quanto ambizioso: creare un polo alimentare italiano privato, di dimensioni tali da poter rivaleggiare con i grandi concorrenti stranieri, cedendo eventualmente alcuni brand con un abile spezzatino azionario. Buitoni punta la Sme per questo: con 3mila miliardi di lire di fatturato e 18mila dipendenti, Sme controlla marchi di prestigio come Cirio, Motta Alemagna, Bertolli, Charms, Sanagola. Offre accesso al settore alimentare ma anche della distribuzione (GS supermercati) e della ristorazione (Autogrill).

IL NO DI CRAXI E L’ALTALENA DI SENTENZE

Un progetto che non può non ricevere avvallo politico per andare in porto vista la portata in termini strategici e di quote di mercato. L’accordo Prodi – De Benedetti, tuttavia, contiene una clausola – trappola per l’Ingegnere: l’esecuzione del contratto dipende dall’ok del Cda dell’IRI, che arriva il 7 maggio ‘86 “salvo l’autorizzazione dell’autorità di governo”. Ma il 24 maggio arriva all’Iri un’altra proposta di acquisto della Sme: la presenta l’avvocato Italo Scalera, che non rivela il committente, e la cifra offerta è maggiore, 550 miliardi. Appena 3 giorni dopo, il 27, il Comitato Interministeriale per il coordinamento della Politica Industriale delibera a favore della privatizzazione della Sme e detta le condizioni per la sua cessione: garanzia della non alienazione a gruppi stranieri della partecipazione “per un congruo numero di anni”, rispetto dei programmi di investimento e dei livelli occupazione definiti dal governo. Inizia una settimana cruciale per l’avvenire della Sme, che in Borsa viene sospesa a più riprese dalla Consob: dal 29 maggio al 6 giugno l’Iri riceve 3 nuove offerte per la Sme. La prima è della Iar: una società costituita da Barilla, Ferrero, Berlusconi e Conservitalia. La seconda è della Cofima, società di imprenditori campani guidata dal napoletano Fimiani. La terza è della Lega delle Cooperative. Scalera esce di scena.

Il 6 giugno, il ministero delle Partecipazioni statali chiede all’Iri di approfondire tutte le offerte ricevute e di comunicare il suo orientamento entro il 13 giugno. Il 13, il Cda Iri si riunisce e scrive al ministro delle Partecipazioni statali Clelio Darida, sollecitandolo: “la mancanza di espresse determinazioni” del ministero non rendeva di per sé applicabile il principio del silenzio-assenso, il governo doveva pronunciarsi con direttive precise.

“La pioggia di offerte per la Sme ci mise in crisi – racconterà 15 anni dopo lo stesso Darida -. Questa storia, infatti, nasce da un errore di Prodi sul quale si cumulò un errore mio come ministro sorvegliante: dovevo subito dirgli di no. Invece all’inizio pensammo, sbagliando, di poter vendere una finanziaria come la Sme a trattativa privata”. Fu davvero un errore? Una colpevole manchevolezza di sottostima? Se così fosse la fama di manager di Prodi ne uscirebbe a pezzi (e non si capirebbe il successo comunque ottenuto in futuro). Ma la questione è ormai politica: da una parte la sinistra DC di De Mita (accusata da Berlusconi di essere ricettrice di tangenti per il caso), che vuole cedere la Sme alla Buitoni, dall’altra il Psi del presidente del Consiglio Bettino Craxi e di Giuliano Amato, che preferiscono vendere alla cordata Berlusconi-Ferrero-Barilla vista l’enorme differenza a favore dello Stato dell’offerta da loro avanzata. «Amato mi rappresentò che Craxi era irritatissimo – racconterà ancora Darida -. Ma Amato è persona gentile e non usò mai toni intimidatori, che comunque io non avrei accettato. In realtà, mi disse anche che Craxi proponeva una commissione parlamentare di indagine sulla Sme: e questo non è quanto di più piacevole nei rapporti tra un ministro e il suo presidente del Consiglio. Infine Craxi mi scrisse che, se si fosse creato un conflitto istituzionale tra lui e me, il ministro avrebbe dovuto dimettersi».

LA MOSSA DI DARIDA E LA FINE DI DE BENEDETTI

A Darida non resta che agire: il 15 giugno il ministro delle Partecipazioni statali firma un decreto che cambia la procedura di silenzio-assenso “in materia di autorizzazioni per la cessione di partecipazioni da parte degli enti di gestione”. Ovvero, per vendere la Sme ci vuole un esame comparato delle offerte presentate. Il trucco è svelato. Il 20 giugno 1985 la Buitoni contrattacca, visto che l’affare sta sfumando. De Benedetti chiede al tribunale di Roma il sequestro cautelativo delle azioni Sme in mano all’Iri. Il 24 giugno 1985 si consuma un altro affondo di Buitoni, che chiede al Tar del Lazio di sospendere l’efficacia del decreto Darida. Il 25 giugno 1985 il tribunale di Roma respinge la richiesta di sequestro delle azioni Sme. Il 10 luglio 1985 anche il Tar dà torto a De Benedetti, respingendo la richiesta di sospensiva del decreto Darida. I legali dell’Ingegnere decidono allora per l’attacco frontale, e il 19 luglio 1985 citano l’Iri davanti al tribunale di Roma: chiedono che sia dichiarato valido il contratto firmato da Prodi e De Benedetti per l’acquisto della Sme. L’11 dicembre 1985 il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giuliano Amato, e il presidente dell’Iri, Romano Prodi, affermano in un comunicato congiunto che il documento firmato con Buitoni era un’intesa preliminare, non un contratto vero e proprio vincolante per le parti. Manca, infatti, l’autorizzazione del ministro. 13 marzo 1986, sentenza della Corte di Cassazione: sulla vicenda Sme è competente il tribunale civile e “si deve convenire nell’assunto della Buitoni che non esisteva e non esiste disposizione di legge che preveda il potere di autorizzazione nei confronti dell’Iri (fatta eccezione per le partecipazioni ex Egam)”. Un punto a favore di De Benedetti, dunque, anche se la palla passa al tribunale di Roma, che dovrà dire “se all’esigenza di autorizzazione ministeriale ai fini dell’esecuzione del contratto si debba riconoscere natura di condizione pattizia”. Ovvero, se il via libera del governo alla cessione della Sme sia indispensabile. Il 19 luglio 1986 la prima sezione del tribunale civile di Roma dà ragione all’Iri: non si può attribuire all’intesa del 29 aprile 1985 “valore di proposta contrattuale, posto che essa non costituiva (…) per nessuno dei firmatari manifestazione di impegno negoziale e lo stesso ingegner De Benedetti dichiara in detto documento una semplice disponibilità a procedere al rilievo delle azioni Sme”. Di più, “il fatto che non vi sia stato un definitivo incontro di volontà fra Iri e Buitoni non sembra quindi imputabile all’Iri”. Prodi, d’altra parte, raggiunto l’accordo con De Benedetti, si “era impegnato a sottoporre con il proprio parere favorevole all’approvazione del Cda l’operazione, subordinando comunque la conclusione del contratto alla preventiva autorizzazione dell’autorità governativa”. De Benedetti, naturalmente, ricorre in Appello, ma nel marzo 1987 anche la sentenza di secondo grado gli dà torto: presupposto del contratto definitivo per la cessione della Sme è l’autorizzazione del governo. Secondo i giudici del tribunale di Roma, infatti, l’Iri, come tutti gli altri enti di gestione, è destinatario “degli indirizzi programmatici vincolanti espressi dall’autorità di governo attraverso Cipe e Cipi”.

LA STORIA INFINITA CON PROTAGONISTI A ROTAZIONE

Per vendere la Sme, ci vuole quindi l’ok dell’esecutivo. Storia finita? No, una vicenda paradossale che continua tutt’oggi: con qualche protagonista in meno davanti ai giudici e qualche estraneo in più alla gogna. A tutt’oggi, Romano Prodi continua a ritenere che la mancata vendita della Sme a De Benedetti fu un errore «perché ritardò di dieci anni l’avvio delle privatizzazioni a tutto beneficio dei compratori privati». Una faccia tosta da gara olimpica, non c’è che dire. Bene, vediamole queste privatizzazioni, figlie legittime del sistema politico-economico rivendicato con orgoglio da Prodi e dai suoi accoliti. Esattamente 10 anni fa si diede infatti il via alla svendita delle grandi aziende pubbliche ai gruppi stranieri, si tennero incontri tra i “Boiardi” di Stato e i magnati dell’alta finanza a bordo di un panfilo di Sua Maestà Britannica. Riguardo quell’annus horribilis della sovranità nazionale ed economica italiana, i giornalisti Fabio Andriola e Massimo Arcidiacono hanno scritto un libro, “L’anno dei complotti” appunto, pubblicato da Baldini & Castoldi. Accaddero tante cose, in quei 365 giorni in fondo così anonimi, e paradossalmente la riunione sul Britannia rappresentò nulla più che una ciliegina sulla torta. Ne parleremo, ma ora è interessante fare un breve excursus per conoscere i presupposti che resero possibile e determinante quella riunione del 2 giugno 1992 sul panfilo di Sua Maestà la regina Elisabetta d’Inghilterra. Nel 1992 accaddero alcuni fatti: la crisi della Prima Repubblica e il successivo ciclone Tangentopoli (Kohl lo pagò in ritardo, esattamente dopo il niet all’operazione in Kosovo nel 1999), le privatizzazioni, l’attacco alla lira da parte del “pescecane” dell’alta finanza – ora riciclatosi come icona no-global – George Soros.

L’ATTACCO ALLA LIRA DEGLI “AMICI AMERICANI”

Nel settembre ‘92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme (sistema monetario europeo). Ecco cosa disse Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea». Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo: non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri». Et voilà, il caso Italia è chiuso. Bartholomew era amico di Leoluca Orlando, sindaco di Palermo: quest’ultimo si recò spesso negli Usa in nome della “lotta alla mafia”. Strano caso, come tutto è strano ciò che nacque e accadde nel 1993, cinque anni dopo Bartholmew diventerà presidente di Merryl Linch Italia. Erano tempi strani, quelli: tempi durante i quali qualche scriteriato ebbe l’ardire di denunciare attraverso un esposto che chiedeva alle autorità giudiziarie di stabilire se le attività di Soros costituissero una violazione dell’articolo 501 del codice penale, secondo il quale è prevista una pena carceraria fino a quattro anni per chi provoca la svalutazione della moneta nazionale e dei titoli di stato con mezzi illeciti (il finanziere americano in poche settimane guadagnò 450 miliardi partecipando all’attacco speculativo contro la nostra moneta, travolgendo l’imprudente difesa della Banca d’Italia che in quell’occasione buttò letteralmente dalla finestra qualcosa come14mila miliardi di lire). Queste azioni riflettevano il tentativo di retroguardia di alcune forze politiche ed economiche che stavano cercando di fermare, o almeno rallentare il processo di disintegrazione delle istituzioni dello Stato.

L’AMERICA SI INDIGNA, MENTRE DINI E FAZIO?

Esse si agganciavano anche a quelle forze e interessi americani, soprattutto intorno al presidente Clinton, che stavano cercando di arginare le folli politiche di tagli proposte da Gingrich, che era nel contempo uno dei più accesi sostenitori della “libera” speculazione della finanza derivata. Infatti, le attività di George Soros erano oggetto di indagini da parte di organi ufficiali americani, soprattutto a partire dal giugno 1993 quando l’allora presidente della commissione bancaria del Congresso, il democratico Henry Gonzalez, sollevò la questione della grande speculazione e di Soros in una storica seduta. La crisi in Italia aveva già raggiunto l’orlo dell’abisso e minacciava di gettare la nazione in un caos totale aprendo le porte a una cannibalizzazione dell’economia italiana da parte delle forze finanziarie ispirate dalla City di Londra. In questo contesto è interessante notare il fatto che il 26 gennaio il primo ministro uscente Lamberto Dini presentò al Parlamento il rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, in cui si diceva che i servizi segreti italiani erano stati chiamati a svolgere delle indagini sulle continue operazioni di destabilizzazione economica e finanziaria dell’Italia. Nel documento si leggeva che «i mercati valutari e le Borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta originate, specie in passaggi delicati della vita politico-instituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardante la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo». L’azione dei servizi è quindi stata indirizzata «alla verifica di eventuali strategie di aggressione sistematica alla nostra sicurezza economica, in un momento in cui è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente». Il rapporto presentato da Dini, ma certamente da lui non preparato, evitava accuratamente di identificare il noto caso di George Soros. Il giorno dopo, 27 di gennaio, parlando a Roma in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Ufficio italiano Cambi (Uic), il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, denunciava che i mercati finanziari erano troppo forti e le banche centrali non erano più in grado di resistere alle operazione speculative sui mercati dei cambi. «Oggi – diceva Fazio – se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie, ndr) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco». Per l’Italia, il cambiamento del clima c’era stato nel 1990 e il vento aveva cominciato a soffiare nel 1992: nell’arco di quei dodici mesi l’Uic aveva utilizzato tutte le sue riserve di 8 miliardi di marchi tedeschi per cercare inutilmente di smorzare la furia dei venti speculativi. Sul mercato italiano dei cambi si registrava un’esplosione delle transazioni internazionali che toccavano i 50mila miliardi giornalieri. Fazio concludeva ammettendo che le banche centrali del mondo non possono far altro che assecondare i “venti” finanziari e monetari. La campagna elettorale ebbe inizio. Il governo Dini e il tentativo di Antonio Maccanico, due “civil servant” della grande finanza internazionale, sono colati a picco su due scogli: il primo si chiama Maastricht, e la sua sostanza è la logica infernale di tagli al bilancio che, contrariamente alle paranoie monetariste, non pareggiano i bilanci ma fanno detonare le mine sotto i resti dell’economia reale; il secondo è costituito da una resistenza, seppur tardiva e disorganizzata, alla speculazione e alle privatizzazioni selvagge complottate sul Britannia. Il quadro è completo, nitido, cristallino. Successe di tutto in quell’anno, capace di trasformare in maniera indolore (fu un tracollo, un disastro senza precedenti ma non si videro carrarmati nelle strade né deportazioni) l’Italia in una sorta di repubblica centrafricana. Punta di diamante dell’intera operazione di svendita fu, quindi, il “caso Britannia”, riunione che si mostrò perfettamente congruente a quello che accade prima e dopo.


MUOIA CRAXI MA NON TUTTI I FILISTEI

Guarda caso, a differenza di Craxi, importanti protagonisti di quella operazione sono ancora in auge al giorno d’oggi. L’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, sì proprio l’uomo che non ricorda e non sa nulla. O l’allora ministro del Tesoro, già governatore di Bankitalia e futuro presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. O ancora il presidente dell’Iri, futuro presidente del Consiglio e presidente della commissione Ue, Romano Prodi. Stando a quanto dichiarato dal giornalista Fabio Andriola, «in quel periodo vi fu una specie di “colpo di Stato” interno alla massoneria italiana, con il Gran Maestro Di Bernardo preoccupato per l’offensiva scatenata dagli incappucciati del Grande Oriente d’Italia capitanati da Armando Corona. La magistratura si spaccò in due tronconi ben distinti “ideologicamente”. Ricominciarono ad esplodere bombe che soltanto anime belle possono credere piazzate per eliminare Maurizio Costanzo e consorte. Esplode con tutta la sua virulenza Tangentopoli; e, dulcis in fundo, finisce in prima pagina quel singolare scandalo, con connotati pecorecci, che ebbe come protagonista “Lady Golpe”, al secolo Donatella Di Rosa, che però andò a mettere nei guai, guarda caso, il comandante di uno dei pochissimi reparti operativi dell’esercito, il generale Monticone». Accuse precise, come preciso fu per l’ennesima volta il comportamento del direttore generale del Tesoro, Mario Draghi. Il quale, infatti, scese dal Britannia per evitare di partecipare a quella che sembrava diventare una svendita delle grandi aziende pubbliche italiane alle multinazionali americane e britanniche. Sì, in seguito fu lo stesso Draghi ad ammettere il suo imbarazzo. Guarda caso dopo la “merenda” sul Britannia le privatizzazioni vennero effettuate a ritmi serratissimi.

LA SVENDITA DEI BENI E DELLA DIGNITÀ NAZIONALE

Parlando soltanto del settore agroalimentare, ad esempio, un settore tradizionalmente importante per la nostra economia, furono numerose le ditte che vennero acquistate dagli stranieri: Locatelli, Invernizzi, Buitoni, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini, Perugina, Mira Lanza e tante altre. Il meeting venne organizzato da un ben preciso gruppo di potere londinesi: sul “Britannia” si trasferì infatti in quell’occasione un pezzo della City di Londra. Nulla di strano né di pittoresco, quindi: tanto più che storicamente la Gran Bretagna ha sempre cercato di ostacolare il rafforzamento di qualsiasi Paese europeo. All’epoca i governanti italiani, specie quelli di sinistra, hanno cercato di accreditarsi nel “mondo che conta” recandosi in pellegrinaggio alla City di Londra come a Wall Street. Assicurando ovviamente la loro disponibilità per non disturbare troppo il manovratore. Il terminale dei politici italiani che dovevano garantirsi sul fronte internazionale è stato, fino a pochissimo tempo fa, proprio la City di Londra: D’Alema docet, Rutelli pure. In effetti, i britannici d’Oltremanica e quelli svezzati d’Oltreoceano non potevano che essere soddisfatti del comportamento tenuto dai loro amici italiani: l’operazione Britannia, infatti, garantì ai soli anglo-americani di accaparrarsi quasi il 50% (precisamente il 48%: 34 agli americani e 14 ai britannici) delle aziende italiane finite in mano straniera. Questo è stato il 1993, anno in cui l’Italia e la sua classe politica persero l’ultimo brandello di dignità oltre che un tesoro industriale ed economico. Ma Amato non sa o non ricorda: lui «affretta il passo, abbassa la testa e si chiude alle spalle la porta a vetri dell’elegante sede del Council on Foreign Relations sulla 68° strada?». Buona scelta e, soprattutto, ottima compagnia.

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