Breve storia delle privatizzazioni in Italia e del conflitto tra il partito di De Benedetti e Berlusconi
Si chiude così la breve intervista fatta lunedì dal corrispondente da New York, Maurizio Molinari, a Giuliano Amato per La Stampa riguardo le accuse lanciate dall’attuale premier riguardo la vicenda Sme. Ma cosa ci va a fare Amato alla sede del CFR, pensatoio geopolitico che fissa gli obiettivi della politica estera americana nonché principale consorteria internazionale dell’alta finanza, legato al Bilderberg Group e alla Commissione Trilaterale? Semplice, è il responsabile per la situazione italiana all’interno di una task-force sull’Europa co-presieduta da Henry Kissinger e dal rettore di Harvard, Lawrence Summers. Buono a sapersi, visto che Amato è anche vice-presidente della Convenzione Europea, organismo chiamato a scrivere la futura Costituzione UE e presieduto dal massone Valerie Giscard D’Estaing, emulo di quel Monnet che affossò il sogno di De Gaulle e consegnò il futuro dell’Europa nelle mani degli Stati Uniti. Detto questo, il fatto che Amato non abbia niente da dire o non ricordi (altra versione venduta ai giudici in passato) nulla della vicenda Sme e della successiva svendita del comparto alimentare italiano alle multinazionali straniere lascia stupiti, soprattutto alla luce delle sue attuali frequentazioni e delle amicizie consolidate nel tempo. Torniamo un attimo indietro e proviamo a rileggere la storia.
LA STORIA INFINITA CON PROTAGONISTI A ROTAZIONE
Per vendere la Sme, ci vuole quindi l’ok dell’esecutivo. Storia finita? No, una vicenda paradossale che continua tutt’oggi: con qualche protagonista in meno davanti ai giudici e qualche estraneo in più alla gogna. A tutt’oggi, Romano Prodi continua a ritenere che la mancata vendita della Sme a De Benedetti fu un errore «perché ritardò di dieci anni l’avvio delle privatizzazioni a tutto beneficio dei compratori privati». Una faccia tosta da gara olimpica, non c’è che dire. Bene, vediamole queste privatizzazioni, figlie legittime del sistema politico-economico rivendicato con orgoglio da Prodi e dai suoi accoliti. Esattamente 10 anni fa si diede infatti il via alla svendita delle grandi aziende pubbliche ai gruppi stranieri, si tennero incontri tra i “Boiardi” di Stato e i magnati dell’alta finanza a bordo di un panfilo di Sua Maestà Britannica. Riguardo quell’annus horribilis della sovranità nazionale ed economica italiana, i giornalisti Fabio Andriola e Massimo Arcidiacono hanno scritto un libro, “L’anno dei complotti” appunto, pubblicato da Baldini & Castoldi. Accaddero tante cose, in quei 365 giorni in fondo così anonimi, e paradossalmente la riunione sul Britannia rappresentò nulla più che una ciliegina sulla torta. Ne parleremo, ma ora è interessante fare un breve excursus per conoscere i presupposti che resero possibile e determinante quella riunione del 2 giugno 1992 sul panfilo di Sua Maestà la regina Elisabetta d’Inghilterra. Nel 1992 accaddero alcuni fatti: la crisi della Prima Repubblica e il successivo ciclone Tangentopoli (Kohl lo pagò in ritardo, esattamente dopo il niet all’operazione in Kosovo nel 1999), le privatizzazioni, l’attacco alla lira da parte del “pescecane” dell’alta finanza – ora riciclatosi come icona no-global – George Soros.
L’ATTACCO ALLA LIRA DEGLI “AMICI AMERICANI”
Nel settembre ‘92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme (sistema monetario europeo). Ecco cosa disse Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea». Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo: non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri». Et voilà, il caso Italia è chiuso. Bartholomew era amico di Leoluca Orlando, sindaco di Palermo: quest’ultimo si recò spesso negli Usa in nome della “lotta alla mafia”. Strano caso, come tutto è strano ciò che nacque e accadde nel 1993, cinque anni dopo Bartholmew diventerà presidente di Merryl Linch Italia. Erano tempi strani, quelli: tempi durante i quali qualche scriteriato ebbe l’ardire di denunciare attraverso un esposto che chiedeva alle autorità giudiziarie di stabilire se le attività di Soros costituissero una violazione dell’articolo 501 del codice penale, secondo il quale è prevista una pena carceraria fino a quattro anni per chi provoca la svalutazione della moneta nazionale e dei titoli di stato con mezzi illeciti (il finanziere americano in poche settimane guadagnò 450 miliardi partecipando all’attacco speculativo contro la nostra moneta, travolgendo l’imprudente difesa della Banca d’Italia che in quell’occasione buttò letteralmente dalla finestra qualcosa come14mila miliardi di lire). Queste azioni riflettevano il tentativo di retroguardia di alcune forze politiche ed economiche che stavano cercando di fermare, o almeno rallentare il processo di disintegrazione delle istituzioni dello Stato.
L’AMERICA SI INDIGNA, MENTRE DINI E FAZIO?
Esse si agganciavano anche a quelle forze e interessi americani, soprattutto intorno al presidente Clinton, che stavano cercando di arginare le folli politiche di tagli proposte da Gingrich, che era nel contempo uno dei più accesi sostenitori della “libera” speculazione della finanza derivata. Infatti, le attività di George Soros erano oggetto di indagini da parte di organi ufficiali americani, soprattutto a partire dal giugno 1993 quando l’allora presidente della commissione bancaria del Congresso, il democratico Henry Gonzalez, sollevò la questione della grande speculazione e di Soros in una storica seduta. La crisi in Italia aveva già raggiunto l’orlo dell’abisso e minacciava di gettare la nazione in un caos totale aprendo le porte a una cannibalizzazione dell’economia italiana da parte delle forze finanziarie ispirate dalla City di Londra. In questo contesto è interessante notare il fatto che il 26 gennaio il primo ministro uscente Lamberto Dini presentò al Parlamento il rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, in cui si diceva che i servizi segreti italiani erano stati chiamati a svolgere delle indagini sulle continue operazioni di destabilizzazione economica e finanziaria dell’Italia. Nel documento si leggeva che «i mercati valutari e le Borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta originate, specie in passaggi delicati della vita politico-instituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardante la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo». L’azione dei servizi è quindi stata indirizzata «alla verifica di eventuali strategie di aggressione sistematica alla nostra sicurezza economica, in un momento in cui è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente». Il rapporto presentato da Dini, ma certamente da lui non preparato, evitava accuratamente di identificare il noto caso di George Soros. Il giorno dopo, 27 di gennaio, parlando a Roma in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Ufficio italiano Cambi (Uic), il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, denunciava che i mercati finanziari erano troppo forti e le banche centrali non erano più in grado di resistere alle operazione speculative sui mercati dei cambi. «Oggi – diceva Fazio – se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie, ndr) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco». Per l’Italia, il cambiamento del clima c’era stato nel 1990 e il vento aveva cominciato a soffiare nel 1992: nell’arco di quei dodici mesi l’Uic aveva utilizzato tutte le sue riserve di 8 miliardi di marchi tedeschi per cercare inutilmente di smorzare la furia dei venti speculativi. Sul mercato italiano dei cambi si registrava un’esplosione delle transazioni internazionali che toccavano i 50mila miliardi giornalieri. Fazio concludeva ammettendo che le banche centrali del mondo non possono far altro che assecondare i “venti” finanziari e monetari. La campagna elettorale ebbe inizio. Il governo Dini e il tentativo di Antonio Maccanico, due “civil servant” della grande finanza internazionale, sono colati a picco su due scogli: il primo si chiama Maastricht, e la sua sostanza è la logica infernale di tagli al bilancio che, contrariamente alle paranoie monetariste, non pareggiano i bilanci ma fanno detonare le mine sotto i resti dell’economia reale; il secondo è costituito da una resistenza, seppur tardiva e disorganizzata, alla speculazione e alle privatizzazioni selvagge complottate sul Britannia. Il quadro è completo, nitido, cristallino. Successe di tutto in quell’anno, capace di trasformare in maniera indolore (fu un tracollo, un disastro senza precedenti ma non si videro carrarmati nelle strade né deportazioni) l’Italia in una sorta di repubblica centrafricana. Punta di diamante dell’intera operazione di svendita fu, quindi, il “caso Britannia”, riunione che si mostrò perfettamente congruente a quello che accade prima e dopo.
MUOIA CRAXI MA NON TUTTI I FILISTEI
Guarda caso, a differenza di Craxi, importanti protagonisti di quella operazione sono ancora in auge al giorno d’oggi. L’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, sì proprio l’uomo che non ricorda e non sa nulla. O l’allora ministro del Tesoro, già governatore di Bankitalia e futuro presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. O ancora il presidente dell’Iri, futuro presidente del Consiglio e presidente della commissione Ue, Romano Prodi. Stando a quanto dichiarato dal giornalista Fabio Andriola, «in quel periodo vi fu una specie di “colpo di Stato” interno alla massoneria italiana, con il Gran Maestro Di Bernardo preoccupato per l’offensiva scatenata dagli incappucciati del Grande Oriente d’Italia capitanati da Armando Corona. La magistratura si spaccò in due tronconi ben distinti “ideologicamente”. Ricominciarono ad esplodere bombe che soltanto anime belle possono credere piazzate per eliminare Maurizio Costanzo e consorte. Esplode con tutta la sua virulenza Tangentopoli; e, dulcis in fundo, finisce in prima pagina quel singolare scandalo, con connotati pecorecci, che ebbe come protagonista “Lady Golpe”, al secolo Donatella Di Rosa, che però andò a mettere nei guai, guarda caso, il comandante di uno dei pochissimi reparti operativi dell’esercito, il generale Monticone». Accuse precise, come preciso fu per l’ennesima volta il comportamento del direttore generale del Tesoro, Mario Draghi. Il quale, infatti, scese dal Britannia per evitare di partecipare a quella che sembrava diventare una svendita delle grandi aziende pubbliche italiane alle multinazionali americane e britanniche. Sì, in seguito fu lo stesso Draghi ad ammettere il suo imbarazzo. Guarda caso dopo la “merenda” sul Britannia le privatizzazioni vennero effettuate a ritmi serratissimi.
LA SVENDITA DEI BENI E DELLA DIGNITÀ NAZIONALE
Parlando soltanto del settore agroalimentare, ad esempio, un settore tradizionalmente importante per la nostra economia, furono numerose le ditte che vennero acquistate dagli stranieri: Locatelli, Invernizzi, Buitoni, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini, Perugina, Mira Lanza e tante altre. Il meeting venne organizzato da un ben preciso gruppo di potere londinesi: sul “Britannia” si trasferì infatti in quell’occasione un pezzo della City di Londra. Nulla di strano né di pittoresco, quindi: tanto più che storicamente la Gran Bretagna ha sempre cercato di ostacolare il rafforzamento di qualsiasi Paese europeo. All’epoca i governanti italiani, specie quelli di sinistra, hanno cercato di accreditarsi nel “mondo che conta” recandosi in pellegrinaggio alla City di Londra come a Wall Street. Assicurando ovviamente la loro disponibilità per non disturbare troppo il manovratore. Il terminale dei politici italiani che dovevano garantirsi sul fronte internazionale è stato, fino a pochissimo tempo fa, proprio la City di Londra: D’Alema docet, Rutelli pure. In effetti, i britannici d’Oltremanica e quelli svezzati d’Oltreoceano non potevano che essere soddisfatti del comportamento tenuto dai loro amici italiani: l’operazione Britannia, infatti, garantì ai soli anglo-americani di accaparrarsi quasi il 50% (precisamente il 48%: 34 agli americani e 14 ai britannici) delle aziende italiane finite in mano straniera. Questo è stato il 1993, anno in cui l’Italia e la sua classe politica persero l’ultimo brandello di dignità oltre che un tesoro industriale ed economico. Ma Amato non sa o non ricorda: lui «affretta il passo, abbassa la testa e si chiude alle spalle la porta a vetri dell’elegante sede del Council on Foreign Relations sulla 68° strada?». Buona scelta e, soprattutto, ottima compagnia.