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La lezione afghana

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Un’ottima occasione per recuperare la bussola e superare la democrazia, almeno noi

Il segretario del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, Nikolai Patrushev, in un’intervista al quotidiano Izvestia afferma esattamente quanto avevamo detto noi a proposito dell’Afghanistan e cioè che gli americani vi hanno installato la più grande base mondiale di produzione di droga (di cui gestiscono l’essenziale del traffico) e che hanno passato vent’anni non di certo a sradicare i campi di papavero ma a moltiplicare la produzione per quaranta.
La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zajarova, ha ricordato che, nonostante le ingenti somme di denaro spese per mantenere le truppe statunitensi sul territorio afghano, Washington non ha creato infrastrutture sociali o imprese civili in Afghanistan. “Agli afgani comuni restano solo la devastazione e i lutti. Lo stesso sviluppo del Paese è tornato indietro di decenni”.
I russi aggiungono che queste azioni di Washington rientrano nel consueto ruolo distruttivo che gli Usa utilizzano nelle loro operazioni belliche che lasciano sempre rovine, decine di migliaia di vittime civili e destabilizzazione dei paesi oggetto dei loro interventi militari.

Chiediamoci
Restano degli interrogativi ai quali dare risposta. In che misura questi Talebani che hanno alle spalle venti anni di consociativismo inconfessato con gli americani, ridurranno la produzione dell’oppio, magari per farne levitare il prezzo; in cosa consiste la triangolazione tra loro, gli Usa e la Cina; perché mai gli americani hanno deciso di fare (o di far fare a Biden) una figuraccia così imperdonabile; se assistiamo a un ripiego americano o meno; se tutto questo mina la Nato.
Non si può dare una risposta a nessuno di questi interrogativi se si ragiona per schemini astratti, se non si ha la consapevolezza degli intrecci ignobili del crimine organizzato che governa il mondo al di là delle bandiere, se non si ha il senso del reale e se non si parte dal concetto che il potere dev’essere unitario e scisso al tempo stesso, perché non potrebbe mai essere diversamente.
Da qui partono le prospettive per alternative possibili, non dai deliri fondamentalisti degli individui astratti e nevrotici.

Dalle Due Torri
Dal punto di vista “unitario” quello che oggi chiamano Gran Reset è in atto almeno dalle Due Torri (e subito dopo dall’intervento americano in Afghanistan per rilanciare la produzione del papavero d’oppio). A partire d’allora, come ebbe a dire Bush jr, nulla sarebbe stato come prima. Plasticamente si pensi alle perquisizioni corporali agli aeroporti che subiamo puntualmente ad opera di civili per sventare attentati jihadisti quando i nostri bagagli vengono caricati in stiva da personale in larga maggioranza musulmano e senza controlli di polizia.
Quell’offensiva del 2001 era fondata sul Rapporto Cheney che intersecava le dottrine Brzezinski e Carter, e si preoccupava dell’imminente esaurimento dei pozzi di petrolio.
Già allora era in laboratorio la New Economy che avrebbe tenuto in conto lo sviluppo incontenibile della Cina e di vari paesi asiatici e dettato la necessità non solo di controllo delle fonti energetiche, ma di svilupparne di nuove.
L’azione del 2001 fu muscolare ed ebbe una serie di contraccolpi, tra i quali l’edificazione provvisoria di un asse Parigi-Berlino-Mosca.
Successivamente si passò ad un’idea più intelligente: destabilizzare le aree chiave e affidarne il controllo a players minori in contesa tra loro e obbligati a discutere con Washington.
Un multipolarismo asimmetrico sul cui sfondo si stagliava un bipolarismo agitato con Pechino.

Bataclan e clima
Battezzata dal massacro del Bataclan a fine 2015, la fase successiva (quella che poi si sarebbe sostanziata con le scelte dell’emergenza covid) partiva dalla Conferenza di Parigi (COP21) e si fondava precisamente sul controllo del clima.
L’unità del potere si faceva tecnologica ed ecologica (e poi sanitaria) e presiedeva una ripartizione di ruoli e una spartizione di zone di controllo.
Dal che nascevano, o quanto meno emergevano, o si stagliavano sullo sfondo, una serie di “scissioni” o conflittualità che sono molto interessanti e che potrebbero far rientrare nella storia l’Europa come tale. A patto che qualcuno agisca seriamente sulla formazione dell’uomo e sulle autonomie sociali, popolari e culturali che formino quel contropotere di cui una potenza unita può fare tesoro. (La struttura sociale e istituzionale della Germania su questo offre parecchi spunti).
Della serie: la storia non ha fine, sempre che non gliela diamo noi con la nostra inconcludenza e con la nostra resa.

Soliti deliri in altalena
Morale della favola: chi oggi si esalta per la “sconfitta” americana non ci ha preso più di tanto, anche se formalmente gli Usa faranno un passo indietro lì ed altrove come già affermato ancor prima di Obama e ribadito da Trump.
Chi si esalta per le sconfitte americane ignora evidentemente quanto di “sconfitta” in “sconfitta” gli Usa abbiano consolidato la propria influenza in paesi oggi formalmente indipendenti, come la Corea e il Vietnam. Chi pensa che il sistema faccia acqua da tutte le parti e stia per crollare è francamente spiritoso.
Si tratta molto spesso delle stesse persone che vedono tutto come un complotto in cui politici, giornalisti, medici, infermieri e farmacisti sono corrotti o minacciati da qualche personaggio più o meno incappucciato, padrone indiscutibile di tutto.  Denunciano la cospirazione per creare un governo mondiale e nemmeno s’accorgono che questo sarebbe debole mentre fortissima è una governance, che c’è già, e che proprio l’eccesso di democrazia e di particolarismi rende potente la governance e risibile il governo. Che è poi la tecnica utilizzata proprio per paralizzare la Ue in cui van combattuti l’eccesso di democrazia (e non la sua mancanza) e l’eccessivo peso dei singoli stati nazionali che insieme producono la tirannia delle Commissioni.
Sono, insomma, gli stessi che sostengono che non si può far nulla perché l’Europa è venduta (il resto invece no!) e poi, all’improvviso, sognano che il nemico crolli, che il popolo si svegli e che tutto torni come ai bei tempi (di solito per tali s’intendono quelli del consociativismo a debito degli anni Ottanta).

Cinquanta
Il problema è sempre lo stesso: mancano consapevolezza e formazione e c’è troppa democrazia. Chiunque opina, scrive, lancia proclami, e quanto più questi sono assurdi e semplicisti tanto più i mediocri s’incontrano e si sostengono tra loro fornendo massa acritica e puntellando la cultura dominante con la loro risibile e banale “alternativa” psicorogida prefabbicata.
Serve come il pane che cinquanta persone di qualità, non dico di più ché sarebbe superfluo, acquisiscano i fondamentali, e per questo bisogna ripartire da una scuola di formazione seria e selezionata.
Altrimenti, parafrasando Gaber, ci ritroveremo un mattino senza bandiere americane ovunque e nella merda più di prima. Perché la produciamo noi.

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