La lingua, secondo Heidegger, è “la casa dell’essere”. La difesa delle lingue europee contro la peste americana è una linea di combattimento che riguarda la nostra stessa essenza di Europei.
Adempiuta la formalità “pluralistica” di riservare una mezza paginetta anche al punto di vista critico, “L’Espresso” impostava però la sua inchiesta in tutt’altro senso, presentando ai lettori la neolingua “under-18” come “uno slang scherzoso, ludico, creativo e fantasioso”. In ogni caso, se la concezione democratica della lingua proibisce ai lessicografi di orientare e li costringe a piegarsi all'”autorità dell’uso” e quindi a registrare supinamente, non sarà certo “L’Espresso” a dar lezioni di purismo… D’altra parte, dell’attuale degrado della lingua italiana non sono certo i gerghi giovanili i soli colpevoli, e neanche i maggiori. Infatti, la principale arma culturale impiegata dall’Occidente nel suo attacco contro l’Europa è l’influenza linguistica esercitata dall’inglese. A dir la verità, più che della lingua di Oxford e Cambridge si tratta delle parlate semiumane della California, del Bronx e della Casa Bianca, vale a dire “del bel paese là, dove okay suona”; o meglio, dove suonò la prima volta, per esser poi adottato dalle scimmie dell’universo “mondo occidentale”. Si tratta ormai di uno pseudoinglese “globale”, una sorta di neoesperanto privo di ogni rapporto con la lingua di Shakespeare e di Pound, una lingua franca senza sintassi e impiegabile solo per fini pratici e limitati. “Per comprare un pacchetto di sigarette”, come dicono certi insegnanti di inglese. E se uno non fuma, che cosa se ne fa dell’inglese?