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La vittoria dei poteri forti

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La nomina di Domenico Siniscalco – un iperliberista rampante che già si è fatto le ossa nell’ambiente mondialista ed usurocratico – al ministero dell’economia rappresenta l’ennesima vittoria dei poteri forti sul governo berlusconiano. Da segnalare il ruolo avuto nella vicenda dai noti “cani da guardia” dell’Alta Finanza (AN, UDC) e l’inconsistenza di un’opposizione anch’essa in cerca di sponsor che contano.

Fumata bianca in via XX settembre: il successore di Giulio Tremonti è Domenico Siniscalco, direttore generale dello stesso ministero dell’Economia. La guida dell’economia italiana affidata ad un “tecnico” sembrerebbe escludere “lo spacchettamento” del ministero, ma la figura di Siniscalco non è quella del burocrate classico, quanto piuttosto quella del liberista rampante, forgiata nella globalizzazione più selvaggia.
Nato a Torino cinquanta anni fa esatti (il 15 luglio 1954), laureato in giurisprudenza nella sua città ha ottenuto nel 1989 un dottorato di ricerca in economia presso l’Università di Cambridge. Il suo curriculum è ricco di incarichi prestigiosi: attualmente Professore Ordinario di Economia Politica, Facoltà di Economia e Commercio, Università di Torino; Direttore della Fondazione ENI Enrico Mattei a Milano; in precedenza ha ricoperto incarichi di insegnamento presso l’Università di Cambridge, l’Università di Cagliari, la Luiss di Roma, la Johns Hopkins University, il CORE, l’Università di Lovanio. Ma non finisce qui: membro del Consiglio di Amministrazione di Telecom Italia, membro del Consiglio di esperti Economici alla Presidenza del Consiglio dei Ministri; consulente economico ed editorialista per “il Sole 24 Ore”: presidente EAERE (European Association of Environmental ad Resources Economists); membro del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) delle Nazioni Unite; membro del Royal Institute for International Affairs di Londra; membro dell’Economic Advisory Group all’European Commission DG III; membro della Reale Accademia delle Scienze di Stoccolma e addirittura membro del team di esperti per le Privatizzazioni, Ministry of Planning, in Arabia Saudita.

In pratica un “tuttologo” della mondializzazione… Tra tutti questi galloni, nel 2001, è arrivato pure quello di direttore generale al ministero dell’Economia. Certamente si tratta di persona assai gradita dai salotti dell’alta finanza, quelle lobby che avvelenano l’economia italiana per i loro profitti. Non ci stupisce quindi il gradimento ricevuto dai principali attori di questa crisi mai dichiarata ufficialmente: AN e UDC, che sono diventati la vera punta di diamante dei poteri forti. In una nota diffusa da Palazzo Chigi, Berlusconi aveva dichiarato: «come richiesto anche dall’UDC, porrò fine al mio interim al ministero dell’Economia e sottoporrò al capo dello Stato la nomina del nuovo ministro». «Prendo atto con soddisfazione -aveva concluso il Cavaliere- che l’UDC garantisce la stabilità e la governabilità e riconferma la sua piena adesione alla maggioranza di governo». «Per quanto riguarda -proseguiva Berlusconi- la squadra di governo, riconfermo la mia piena fiducia nei confronti degli attuali ministri».
In questo modo si conclude questa brutta soap opera. Berlusconi avrà il suo “record”: sarà il primo presidente del consiglio rimasto in sella per una intera legislatura (almeno è questo l’obiettivo); la Lega porterà a casa il federalismo e l’UDC, ormai incoronata come partito della grande finanza, può puntare alla ricostruzione della Democrazia Cristiana, ovviamente insieme al vecchio pigmalione e prossimo paggio di compagnia Alleanza Nazionale.
Proprio il partito di Fini in questa crisi ha fatto la figura dell’eunuco dell’harem, uscendo ridicolizzato, incapace di sostenere una posizione autonoma, divaricato tra servilismo verso Berlusconi e le tentazioni centriste dei post diccì.
L’opposizione ulivista non fa certamente una figura migliore. Era certamente pronta alla contestazione se fosse stato nominato un politico, un Fini, un Follini, un Marzano o una Moratti, ma è restata spiazzata dalla nomina di un uomo così legato ai salotti della grande finanza, segno che i tentacoli del denaro arrivano ben dentro il Botteghino e non lasciano immune nemmeno un rivoluzionario cachemire come Bertinotti.
In ogni caso la chiusura formale della crisi

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