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Leninismo vaticano

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I soli che non hanno una strategia sono i sovranisti

Cinquecento giovani da tutto il mondo, metà imprenditori, l’altra metà economisti, tutti rigorosamente under trentacinque, si ritroveranno ad Assisi dal 26 al 28 marzo del prossimo anno per partecipare a “The Economy of Francesco”. A convocarli è stato, qualche giorno fa, proprio Papa Francesco con una lettera nella quale propone un patto per “cambiare il mondo”, per pensare e realizzare insieme un sistema economico più giusto, inclusivo e sostenibile.
Il Papa, che ha affidato la realizzazione concreta dell’iniziativa al Vescovo di Assisi, mons. Sorrentino e all’economista Luigino Bruni, nel ruolo di coordinatore scientifico dell’evento, vuole stipulare un’alleanza con i futuri leader mondiali. Quei giovani che già oggi stanno plasmando con le loro imprese innovative il mercato globale di domani e quegli economisti che ne descriveranno e influenzeranno il funzionamento attraverso le loro idee e teorie, che presto si trasformeranno in politiche economiche e visioni del mondo.

Addio profitto, scopo dell’impresa è la felicità di chi ne fa parte
A loro il Papa chiede aiuto per dare, insieme, un’anima all’economia. Le cose da fare non mancano. Occorre ricostruire un panorama fatto non soltanto di benessere materiale e inarrestabili commerci internazionali che escludono e pesano sul pianeta in maniera insostenibile; nuove e vecchie povertà persistono e tengono sotto scacco miliardi di persone; le diseguaglianze crescono a ritmi inimmaginabili con impressionanti concentrazioni di potere e ricchezza; la devastazione dell’ambiente verso il quale sembriamo, al contempo, incoscienti ed impotenti; e poi un contorno vario di scandali, truffe, corruzione, speculazioni, rendite, esclusione. Un panorama per molti versi non più sopportabile, senza neanche più il paravento dell’ideologia del trickle-down o della Curva di Kuznets ambientale, o di altre prospettive di “sorti magnifiche e progressive”.
Ma c’è anche un altro punto, forse più fondamentale, su cui ad Assisi sarà importante riflettere, un tema collegato agli altri in modo, forse, non immediatamente evidente, ma che sta alla base di tanti dei fallimenti che, oggi, l’economia globale sta sperimentando. Attiene alla visione di persona che oggi abita i modelli economici, alla concettualizzazione delle motivazioni, delle modalità d’azione e delle finalità che i decisori economici, produttori, consumatori, risparmiatori, investitori, si danno e perseguono. Questo tema, la visione antropologica che sottende la teoria economica, è fondamentale perché, come aveva già intuito Benedetto XVI nella “Caritas in Veritate”, soprattutto oggi “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica”.

Ecco perché dobbiamo spingere i nostri giovani a studiare
Nel II secolo d.C. Claudio Tolomeo elaborò una serie di modelli geometrici per rappresentare il moto dei corpi celesti, noti ai suoi tempi. I modelli erano complessi, non semplici orbite circolari, perché dovevano “salvare i fenomeni”, tener conto, cioè, di alcune anomalie dei movimenti planetari, allora già note. Per far questo, Tolomeo utilizzò accorgimenti geometrici come gli epicicli, i deferenti e gli eccentrici. Tutti necessari per mettere d’accordo teoria e osservazioni.
Contrariamente ai pitagorici, Tolomeo e, prima di lui, Gemino da Rodi, erano convinti che le descrizioni matematiche dell’universo non rappresentassero la vera natura dei fenomeni descritti, ma che fossero semplicemente delle rappresentazioni coerenti con i fenomeni osservati; degli utili strumenti per prevedere l’evoluzione dei moti planetari. Si arrivò anche a dimostrare che in alcuni casi era possibile usare modelli radicalmente differenti, uno fondato su un “eccentrico mobile” e l’altro su un “epiciclo deferente”, per esempio, per spiegare lo stesso insieme di osservazioni. La stessa realtà descritta in modi completamente alternativi.
Non c’è, quindi, un modello vero ma uno strumento utile, perché il compito dell’astronomo è, per Tolomeo, quello di costruire rappresentazioni matematiche della realtà che si accordano con le osservazioni e non tanto fare ipotesi su quelli che sono i reali fenomeni che generano tali osservazioni. I modelli ponevano naturalmente, tutti, la terra al centro delle orbite dei pianeti. Il punto centrale della questione è che, sia che si usino gli epicicli o gli eccentrici, sia che i nostri modelli siano eliocentrici o pongano la terra al centro, i pianeti continueranno bellamente a muoversi seguendo le loro leggi e la loro natura, indipendentemente dal tipo di descrizione matematica che si dà del loro comportamento. Usare una teoria o l’altra non ne modificherà certo l’orbita.
Una posizione per alcuni versi simile venne proposta in ambito economico, da Milton Friedman, in un famoso saggio del 1953, dove veniva discusso il ruolo del realismo delle assunzioni nei modelli economici. La tesi di Friedman, che venne definita poi “strumentalismo”, sosteneva che il realismo delle assunzioni su cui si costruiscono le teorie economiche, la massimizzazione del profitto dell’impresa, per esempio, o la razionalità e l’auto-interesse dei consumatori, non dovesse essere utilizzato come criterio per valutare la bontà dei modelli stessi, che, invece, andavano giudicati in virtù della loro capacità di prevedere i fenomeni oggetto di analisi, di “salvare i fenomeni”, avrebbe detto Tolomeo.

Ora, tra le due posizioni, però, c’è una differenza fondamentale: mentre in astronomia, la teoria utilizzata per descrivere i fenomeni non ha nessun tipo di influenza sulla realtà oggetto di osservazione, in economia, così come in tutte le altre scienze sociali, questa relazione esiste. “L’osservatore getta la sua ombra sulla realtà che osserva”, avrebbe poi scritto Wittgenstein.
Secondo la nota tesi della “doppia ermeneutica”, infatti, diversamente dalle scienze fisiche, nelle scienze sociali le teorie tendono ad auto-avverarsi. I modelli, più o meno completi, più o meno realistici, infatti, vengono usati, non solo per descrivere la realtà, ma anche per progettare politiche, per disegnare istituzioni, per regolare il funzionamento di organizzazioni e società. Si scrivono contratti, si elaborano schemi di incentivi, si implementano modelli manageriali e se il modello di agente economico che informa tali attività è incompleto o eccessivamente stilizzato, esiste il rischio concreto di produrre effetti indesiderati, spesso controproducenti. E’ emblematico, in questo senso, l’esempio della cultura manageriale e quello giocato dalle business school nel produrla e diffonderla.
Sumantra Ghoshal, influente economista indiano della London Business School, lanciò l’allarme, qualche anno fa, in un articolo significativamente intitolato “Bad Management Theories Are Destroying Good Management Practices” (Academy of Management Learning & Education, 2005, 4(1), pp. 75–91). Si sosteneva che “cattive” teorie manageriali hanno avuto in impatto significativo e una influenza cruciale nella genesi di scandali aziendali e, successivamente, della crisi finanziaria, che sarebbe scoppiata di lì a pochi anni, perché hanno imposto a generazioni di manager, cresciuti nei circoli delle più prestigiose scuole di amministrazione d’impresa internazionali, una visione del mondo fortemente ideologizzata e totalmente svincolata da ogni senso di responsabilità morale.

Molti dei peggiori eccessi che, in questi anni, hanno portato a epocali scandali e clamorosi fallimenti, trovano la loro radice nell’armamentario manageriale ed economico emerso in queste scuole nel corso degli ultimi trent’anni, sosteneva Ghoshal. Descrizioni incomplete del mondo economico che determinano effetti nefasti sulla vita non solo economica di miliardi di persone. Eppure, oggi l’economia comportamentale, la psicologia cognitiva e le neuroscienze sociali ci forniscono di strumenti potentissimi per comprendere a fondo le dinamiche decisionali e motivazionali anche in ambito economico. Ora il passo successivo è quello di rendere operative queste conoscenze. Iniziare a pensare, per esempio, a politiche pubbliche e alla progettazione di istituzioni fondate su una visione antropologica meno caricaturale di quella dell’homo oeconomicus, che tengano conto, cioè, di come le persone sono realmente e non di come dovrebbero essere, o ci piacerebbe che fossero; di come tutti noi effettivamente prendiamo le nostre decisioni, invece che su un modello di razionalità e self-interest che si è ormai dimostrato fattualmente falso.
Se le questioni sociali trovano genesi e radice nelle visioni antropologiche, progressi in questa direzione, allora, ci aiuterebbero a guardare sotto una luce differente fenomeni come la disuguaglianza, la crescita senza lavoro, i beni comuni globali, il suicidio ambientale, le trasformazioni dei modi di produzione, le nuove forme di deprivazione e magari anche ad elaborare strumenti innovativi per affrontarli, e chissà, forse anche a fare passi nella direzione di nuove soluzioni. Credo che i cinquecento giovani invitati ad Assisi da Papa Francesco, non a caso, imprenditori e studiosi insieme, prassi e teoria in dialogo, con le loro idee e visioni, le pratiche e le scelte contro-corrente possano rappresentare una grande risorsa generativa di novità, speranza e cambiamento per tutti noi.

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