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L’Italia dei morti

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E come sentirsi esule

C’è un’aria irrespirabile in questo Paese: un alito pestilenziale, che prende alla gola e che fa vivere le persone civili con il fegato in mano.
Non so se definirlo semplice demenza collettiva, cecità fanatica, ideologizzazione dei processi logici elementari: e, forse, nemmeno vale la pena di dare un nome a questo mostro occulto, che si sta divorando la nostra pace e le nostre capacità di giudizio.
Fatto sta che esso è positivamente reale: esiste ed è tangibile, né più né meno che questa tastiera su cui sto battendo.
Basta osservare la cronaca per coglierne la dimensione mastodontica ed invasiva: si tratta del manicheismo più strabico, più insensato. Tanto che, forse, il termine “manicheismo” andrebbe aggiornato: oggi bisognerebbe dire “italismo”, per definire un simile modo di disprezzare chi non la pensa come te ed accettare supinamente tutto ciò che provenga dalla tua fazione.
Credo che i recenti fatti di San Lorenzo ne siano la più evidente cartina tornasole, ma gli episodi sono infiniti e di una frequenza allarmante. Ormai, anche dinnanzi ad una pagina tra le più efferate della cronaca nera, ci si divide: si specula, si parteggia. E non soltanto la plebaglia, usa accorrere in ogni piazza in cui si decapiti, per godere del sangue, ubriacarsi della tensione della morte.
Perfino intellettuali, dalle impeccabili giacche e dalle ributtanti coscienze, si sono cimentati in superciliose distinzioni: in analisi da salotto. Come se non fossero stati di fronte al cadavere di una ragazzina, ferocemente abusata ed uccisa da criminali selvaggi, ma ad un cabaret di baci di dama e di pasticcini, per il thè delle cinque.
E questo è solo l’ultimo, cruento, esempio: ma in tutto ciò su cui si possa litigare, gli Italiani litigano. Dal calcio alla politica, dall’immigrazione all’economia, dalla cronaca alla storia.
Ormai la situazione è cristallizzata, irrimediabilmente necrotizzata: la stupidità è dilagata, non è più dilagante.
E la rabbia, la frustrazione, l’insicurezza, rendono Paese che, un tempo, veniva additato al mondo come la terra dei limoni, dove si viveva giocondamente, prendendo tutto con molta filosofia, una bestia spaventata. Noi non siamo più noi: ci siamo, in qualche modo, trasformati.
Sarebbe lungo e complesso risalire alle origini e alle responsabilità di questo atroce fenomeno di putrefazione di un popolo, ma, certamente, larga parte di queste colpe ricadono sulla scuola (e su chi l’ha trasformata in una fabbrica di idioti), sulla televisione (e su chi l’ha voluta precisamente come una fabbrica di idioti) e sulla politica, che, dopo Tangentopoli, si è sempre più volgarizzata e radicalizzata.
E, poi, ci siamo noi: la gente qualunque. Colpevole di non avere mai cercato di capire davvero: di non essersi mai opposta alla valanga di fango che ci andava ricoprendo. Noi Italiani, dico: incapaci e indegni del voto.
Così, oggi, vediamo casalinghe e femministe azzuffarsi, in un quartiere centrale della nostra capitale, trasformato in una parodia dell’Africa peggiore, quella che, anziché stare a lottare per la propria dignità e libertà a casa propria, viene in Europa a delinquere, sfruttando l’impunità creata da questa perenne guerra tra visioni della società. E, a monte della zuffa, c’è una giovane vittima. E ci sono i soliti morti di serie A e di serie B: la solita indignazione a fasi alterne.
L’incapacità, tipica dei popoli primitivi, di vedere nel lutto degli altri un lutto di tutti: una visione barbaramente tribale della comunità umana. E quest’Italia mi fa schifo: tutta quanta. Se potessi, me ne scapperei via, lasciando qua i miei morti e i miei ricordi. Come un esule. Infelice come un esule.

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