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Lou e gli autonomi

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Reed ebbe problemi con i talebani rossi

È morto a 71 anni Lewis Allan Reed, meglio conosciuto come Lou, artista maledetto prima nei Velvet Underground e poi protagonista di una importante carriera solista. Il cantante aveva subito un trapianto al fegato nel maggio scorso e, proprio per delle complicazioni in seguito all’operazione, è deceduto nel sobborgo newyorchese di Southampton.
Nato nel 1941 in una famiglia della buona borghesia ebraica di New York, aveva per tutta la sua vita cercato di dare scandalo in spregio ai valori dell’ambiente di provenienza. Da qui i testi – e le esperienze di vita – a base di esperimenti sessuali e droghe (una foto lo ritrae sul palco, nel 1974, mentre si inietta eroina davanti ai suoi fan).
Anticonformista nato, Lou Reed non era facilmente inquadrabile in categorie politiche semplicistiche. Come molte rockstar americane era portato a banalizzare le grandi questioni e a nutrire uno spontaneo disprezzo per ogni autoritarismo. In questo senso era “di sinistra”, nel senso della cultura liberal degli anni ’60, ma senza rinunciare a una notevole indipendenza da ogni dogmatismo.
Negli anni ’90, mentre la nuova sinistra impazziva per Clinton, Reed prendeva le distanze: “Negli Stati Uniti si è scatenata, fra chi comanda e chi vorrebbe comandare, una gara a chi è più moralista. Clinton è stato una delusione totale, è confuso e non sapendo che fare scimmiotta i repubblicani. Ma queste campagne moralizzatrici nascondono in realtà ben altro: la volontà di distrarre l’opinione pubblica da problemi veri, come i senza casa, la miseria, la disoccupazione, le ruberie nella pubblica amministrazione”.
La delusione per Clinton – che non sfocerà mai, beninteso, in alcuna simpatia per i repubblicani, che Reed sempre disprezzerà – si ripeterà anche con Obama. “Dov’è finito il nostro uomo? Barack Obama… Un giorno dà un discorso davanti alla statua di Martin Luther King: ma Martin Luther King quel giorno sarebbe stato con i ragazzi di Occupy Wall Street. È per quello che l’abbiamo eletto. E invece no: Obama missing in action. Disperso in battaglia”.
Nella stessa intervista, risalente allo scorso anno, si lasciava andare a sgangherate opinioni sulla situazioni geopolitica, dalla Siria all’Iran, per poi domandarsi: “Ma spetta poi a noi continuare a fare i poliziotti del mondo? Lasceremo fare agli israeliani? […] Dice un mio amico che dovremmo prendere Israele e trasferirlo nello Utah: adesso basta, ragazzi, fuori da qui. Insomma: è terribile quello che succede con i palestinesi”.
E tuttavia nel 1994, all’epoca del primo governo Berlusconi, si fece incastrare al concertone dei sindacati, uscendosene con appelli alla vigilanza da sinistra questurina del tipo “un governo di destra nasconde sempre una insidia fascista, e questo è molto pericoloso”, pur aggiungendo qualche affermazione un po’ più lucida e probabilmente incomprensibile alle orecchie del suo pubblico d’occasione come la seguente: “Non credo sia possibile definire la cultura musicale come una cultura di destra o di sinistra e comunque quando l’intelligenza viene spesa per affibbiare etichette rimango molto sorpreso”.
E pensare che in Italia Reed i maggiori problemi non li aveva avuti certo con la destra. Nel 1976, al Palalido di Milano, due mesi prima del famoso “processo” a Francesco De Gregori da parte dei commissari politici di Autonomia Operaia, anche il cantante newyorkese aveva avuto a che fare con i talebani rossi: prima era stato preso in ostaggio il manager David Zard, poi un cubetto di porfido aveva sfiorato il bassista. Lou Reed aveva mostrato il dito medio e urlato “Fuck you everybody” mentre lascava il palco dopo un paio di canzoni. Qualche giorno dopo, per il concerto al Palaeur di Roma, si sfiorò addirittura la guerriglia urbana.
Enrico Ruggeri, del resto, ha più volte raccontato di come tutto il rock decadente, negli anni ’70, venisse guardato con sospetto in quanto nichilista, “borghese” o anche semplicemente per raffinati ragionamenti politologici che volevano arruolato nei “fasci” chiunque avesse occhiali da sole, giubbotti di pelle o capelli corti.
C’è da dire che John Cale, fondatore assieme a Reed dei Velvet Underground e in seguito apprezzato musicista d’avanguardia, non è che abbia mai fatto molto per smentire questa fama sulfurea, tanto da dedicare a Ezra Pound il brano “E is missing”, nel suo album solista 5 tracks. Qualche passo ben più esplicito l’aveva fatto l’altro gigante del glam rock anni ’70, l’eterno sodale David Bowie, che fra un elogio a Hitler come “prima rockstar”, un presunto saluto romano, una citazione di Mishima e un tono da Übermensch non è che fosse esattamente un campione della musica democratica. Frammenti confusi, luminose dissonanze di chi si è fatto un giro nella zona selvaggia.

 

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