martedì 2 Dicembre 2025

Marciate in spirito

Più letti

Global clowns

Note dalla Provenza

Colored

altIl testo integrale del discorso di piazza Vescovio

Non siamo qui a chiedere.
Non siamo qui per chiedere a nessuno.
Noi siamo quelli che non chiedono, siamo quelli che agiscono, che prendono e che si danno, siamo quelli – i soli – che non hanno padrini e che non hanno padroni.

Siamo qui innanzitutto per rispondere.
A chi?
A quelli che pretenderebbero che noi onorassimo i nostri morti in silenzio, di nascosto, senza chiamarli per nome, in modo indifferenziato, confusi: “condivisi” dicono.

Chi ce lo dice? Chi è questo qualcuno?
Sono quelli che meno di tre settimane fa hanno inscenato il ricordo di Walter Rossi e preteso di farlo da soli fino a scacciarne dalla piazza il padre.
Sono quelli che sabato a Roma hanno inscenato il “gay pride della rivoluzione”.
Sono gli stessi che assaltano e che aggrediscono impuniti i fascisti, e in particolare le iniziative di Casa Pound e del Blocco Studentesco che ritengono le più nocive; e sono quelli che quando non possono prevalere, come a Napoli la scorsa settimana, si fanno sostituire fisicamente dalla polizia.
Sono gli antifa per i quali uccidere un fascista non è reato e ricordarlo invece sì.

Ma siamo a rispondere anche e soprattutto a chi li ascolta.
A chi ci dice: suvvia annacquiamoli un po’ questi morti, facciamone vittime innocenti di un carattere troppo impetuoso, onoriamoli con misura borghese, senza dar troppo nell’occhio.
Deponiamo un fiore all’anno e poi facciamo finta di niente, tiriamo a campare perché esagerare non è il caso,
No signori, il sangue non è acqua e se voi, a furia di frequentare salotti buoni e corti da bassa repubblica siete divenuti schiavi, il problema è vostro; ma non tirateci dentro ai vostri problemi.

Mi viene in mente un film, Scipione l’Africano,  con i fratelli Mastroianni. A un certo punto Scipione vuole affrancare gli schiavi che però non sanno più essere liberi, rifiutano e quando si rimangia la decisione esclamano “Gajardo arisemo schiavi!”
Ecco, gajardo. Ingagliarditevi del vostro sminuzzare e del vostro annacquare, godetevi le vostre catene.
Ma noi siamo quelli che le catene le hanno spezzate in culla ed è per questo che molte volte le hanno portate ai polsi. Per secoli, se sommiamo le pene di questa piazza dove gagliardia è sempre stata il contrario della schiavitù, uomini per cui le sbarre hanno dovuto per forza materializzarsi perché era l’unico modo d’imprigionarli visto che si rifiutavano –  e si rifiutano – di farlo da soli.

Perché mai allora dovremmo annacquare il ricordo dei nostri morti?
Perché dovremmo accettare che essi siano ricordati come vittime di una non ben identificata violenza politica?
Perché dovremmo sminuirli, ridurli alla portata dello sbiadito tirare a campare di questi  giorni di ignavia?
Perché, qualcuno insinua, è sempre meglio questo di niente.
No! Meglio niente che questo!

Noi non abbiamo paura e men che meno abbiamo la paura di avere coraggio.
Perché la paura è innanzitutto paura di avere paura; è la paura di perdere qualcosa, è implorante piccolezza.  Ma noi non siamo attaccati a nulla. Non potete toglierci nulla perché nulla abbiamo, e non per fallimento ma per scelta di vita, per filosofia di vita, per autenticità di vita.
Noi non abbiamo mai chiesto niente, noi siamo in credito con tutti, in un credito inesauribile, infinito e non siamo nemmeno  buoni cristiani perché non reclamiamo assolutamente niente ai nostri debitori. Perché siamo ricchi della nostra felice incorruttibilità, della nostra povertà in beni e della nostra magnanimità (che significa di animo grande).

E siamo fieri anche della nostra ingenuità perché va detto che siamo ingenui (che significa di buona razza) e quindi siamo facilmente raggirabili ma non per questo siamo disposti ad accettare che i furbi e i vigliacchi, gli sciocchi e i mendicanti ci diano le disposizioni sul come ricordare i nostri morti.
E non accettiamo che essi siano presentati come delle vittime acefale, come dei non combattenti, che siano selezionati, depennandovi costantemente i politicamente scorretti, al fine di rifare la storia come mai fu. E non accettiamo che a stabilire la classifica e la  qualifica dei nostri morti, con la benedizione di certe destre, sia il genero di Enrico Berlinguer.

Noi onoriamo i nostri morti, tutti.
A iniziare da quelli uccisi vigliaccamente da “fuoco amico”, che ce ne furono, e continuiamo senza arrossire quando onoriamo quelli uccisi dai funzionari della repubblica.
E senza fischiettare quando, nel computo della guerra civile, ci accorgiamo che in condizioni di scontro impari, senza nulla e nessuno alle spalle, contro gente protetta da giudici, giornalisti, stampa e servizi segreti di tutte le latitudini, abbiam reso pan per focaccia e persino prevalso nel computo delle perdite inflitte.
Ciò sarà politicamente imbarazzante per chi fa il perbenista, ma noi non siamo perbenisti.

E non ci sogneremmo mai di insultare i nostri Caduti facendo di loro qualcosa di meno intero, di meno caratterizzato, di meno assoluto di ciò che sono sempre stati.
E’ per loro che siamo qui stasera, per quelli che come canta Sotto Fascia Semplice non hanno avuto il tempo di cambiare idea. Per quelli che comunque non l’avrebbero cambiata e che ancor meno avrebbero preteso, nel cambiarla, di far apparire diversa la storia di chi dal 1919 ad oggi con il proprio sangue ha irrorato la terra di questa Nazione facendola rivivere.
Non sono morti in grigio, sono morti in nero, sono semi alchemici e non degli sfumati nessuno.
E non sono affatto vittime della “violenza politica” il che poi sottende della pericolosità delle idee, del carattere, dell’entusiasmo; il che sottintende come sia bella l’arrendevolezza dell’odierno cittadino consumatore. Non sono affatto vittime della violenza politica ma sono Combattenti assassinati dagli antifascisti.

Condivisione? Ma de che? Con chi? Con gli assassini in borghese e in divisa di Acca Larentia? Con i ricchi e protetti massacratori della giustizia proletaria di Primavalle? Con i nuovi partigiani che hanno assassinato Angelo Mancia? Con i consiglieri comunali di ogni partito che  a Milano hanno applaudito alla notizia dell’avvenuta morte, dopo un mese e mezzo di agonia, dell’adolescente Sergio Ramelli?
Con i portaborse eterni dell’assassino impunito di Francesco Cecchin il quale vorrebbe che questo giardino cambiasse nome?
Con gli eredi della giustizia partigiana, degli eccidi di Piazzale Loreto, di Schio, di Rovetta, del triangolo rosso?

No. Non abbiamo davvero nulla da condividere.
E se qualcuno, qualcuno cui sembrerà gajardo esser schiavo, ci dice “così o niente” gli rispondiamo: tenetevele le vostre targhe commemorative che fanno dei nostri Caduti null’altro che dei morti per caso, quasi si trattasse di vittime stradali del sabato sera.
Non abbiamo bisogno di targhe, piazze, giardini e neppure di monumenti per ricordare chi non scorderemo mai. Non abbiamo bisogno di mettere un punto fermo per voltare pagina perché le nostre pagine non sono da girare ma da immortalare.

Questo lo diciamo a quelli che tentennano, che ci ricordano coloro che in doppio petto, mentre noi si teneva il fronte, dalle loro poltrone chiedevano contro di noi la doppia pena di morte. A coloro che prestano orecchio agli antifa, ai commissari politici e ai cattivi maestri.
A questi ultimi invece non diciamo niente. Che si permettano ancora e sempre di sindacare su quello che pensiamo, che diciamo e che facciamo in fondo ci fa ridere.

A tutti gli altri, a quelli che non hanno vissuto nulla di tutto ciò, e anche a quelli che rifiutarono di coinvolgersi noi offriamo, dall’alto della nostra magnanimità, l’ipotesi di un luogo di memoria collettiva (non condivisa ché non può esserlo) in Valle Giulia.
Dove loro, al massimo, faranno qualche cerimonia perché dei riti, a differenza nostra non sono capaci.

Offriamo. Perché abbiamo il cuore così traboccante che possiamo concederci il lusso di alimentare con i resti anche gli altri: gli aridi, i cinici, gli egoisti, i disperati.
Offriamo, sia chiaro, non chiediamo. Perché non accettiamo da nessuno, ma proprio da nessuno, lezioni o istruzioni sul nostro convivere con i nostri Lari, con i nostri Angeli custodi.
Con essi e nel rispetto coerente di quel che furono e sono, noi teniamo pié fermo.
Come dicono le parole della nostra canzone E tutti insieme i morti con i vivi lanciamo in coro una sfida travolgente sul vecchio mondo che non ha più ideal.
Badate:
“Sul vecchio mondo che non ha più ideal!”
Badate:
“E tutti insieme i morti con i vivi”.
Perché noi abbiamo questo privilegio di essere entrambe le cose quando, oggi, di solito nessuno è più l’una o l’altra.
Perché non è un espediente retorico o un grido di routine quando chiamiamo Presente! essi sono tangibilmente con noi.
Il compito proibitivo è esserlo, noi, presenti con loro.
Vediamo di ricordarcelo e di esserne degni!
 

Ultime

Cannibali di energia

Divorano troppa corrente elettrica

Potrebbe interessarti anche