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Metaisrael vs Israel?

Come si spiega la disapprovazione sostanzialmente unanime e inedita per l'azione di Tel Aviv?

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Osserviamo quanto accade a Gaza tralasciando per un istante – e sottolineo per un istante dato che non è concessa neutralità – le ragioni emotive.
L’impressione è che tali motivazioni siano strumentalizzate per scopi terzi che poco hanno a che fare con esse.

Israele è davvero un’eccezione al di sopra dei meccanismi comuni?
Si è cristalliazzata una concezione superomistica dell’ebreo (o nel male o nella virtù) che attribuisce pertanto a Israele una superiorità fattuale rispetto ad altri Stati.
Degli elementi oggettivi puntellano questa tesi. Intanto la prolungata impunità (è il solo Stato che abbia assaltato una nave americana nel 1967 uccidendone l’equipaggio senza subire alcuna rappresaglia o che abbia osato compiere strage dell’amministrazione britannica in Palestina, nel 1946, senza subirne le conseguenze e che si permette, sempre senza contraccolpi, di violare innumerevoli risoluzioni dell’Onu). Poi c’è la potenza delle relazioni internazionali con la Diaspora, che concedono a Tel Aviv d’importare un enorme valore aggiunto nell’intelligence e nello sviluppo dei settori di eccellenza. Inoltre la miscela tra il ruolo strategico concessogli dalla doppia concezione (russa e americana) del Medio Oriente e potenziato dal ricatto morale verso gli europei colpevolizzati per l’Olocausto, gli ha lungamente garantito sostegni fondamentali. Tutto questo ha concesso a Israele di vivere in qualche modo in una botte di ferro, fino a crearsi l’arsenale atomico contro ogni regola internazionale.
Ma è ancora del tutto così, o, nella nuova fase mondiale, in qualche modo inaugurata dalle Twin Towers, le cose sono cambiate e continuano a mutare?

Mai così tante critiche ad Israele
So bene che per chi è impregnato di culture di ghetto è difficile interpretare l’attualità perché per lui tutto si risolve in slogan truculenti. Ragion per cui se è ostile ad Israele si scandalizza per le affermazioni di prammatica dei media e dei governi che premettono la loro comune critica a Tel Aviv con “il diritto d’Israele a difendersi”. A parte il fatto che questo ricorda tanto la famosa premessa “non sono razzista ma”, quasi nessuno nota – anche perché non lo vuole notare – che non c’è nessun governo che stia appoggiando seriamente Tel Aviv, ma che tutti, americani e italiani in primis, stanno giocando la carta della cooperazione araba. Per quanto ci riguarda siamo i soli ad avere impegnato l’esercito nella solidarietà ai palestinesi, un esercito che, ricordiamolo, ha ottimi rapporti con Hezbollah in Libano. La Ue, poi, ha aumentato i finanziamenti alla Palestina.
Ovviamente tiene banco la campagna mediatica della lotta al risorgente “antisemitismo”, ma questa sembra più uno stratagemma escogitato per non farsi accusare per la propaganda umanitaria per Gaza. Giacché questo presunto antisemitismo è ampiamente l’effetto emotivo di quanto accade nella Striscia e non si manifesterebbe in queste dimensioni se, come sempre era accaduto in passato, i media evitassero di mostrare le immagini e trattassero il tutto sbrigativamente come notizie di sottofondo da liquidare nell’eliminazione di obiettivi di Hamas senza una parola per le migliaia di vittime collaterali.
È vero che le proporzioni del massacro attuale sono enormi, ma Israele non sta facendo nulla che non avesse compiuto a più riprese periodicamente in passato. Le reazioni israeliane alle critiche che piovono da ovunque, ma proprio da ovunque, rivelano l’indignazione e la sorpresa di chi si sente tradito da coloro che lo avevano sempre coperto.

La tensione esplosiva
L’impressione è che Netanyahu o chi per lui sia rimasto intrappolato dal meccanismo con il quale intendeva strumentalizzare Hamas per garantire la tenuta del suo governo e per potere offrire nuova terra ai coloni. Impossibile non pensare ai precedenti di Piazza Fontana o della Stazione di Bologna dove gli esecutori furono manipolati dai manipolatori ma poi furono gli stessi manipolatori a venire fatti fuori dai giochi. Nel 1980 una sovrapposizione di servizi e logge, oltre al centrare – forse – gli obiettivi internazionali preposti, invischiò la rete operativa (la Stasi e le BR utilizzate dal Superclan) determinandone il ridimensionamento e il parziale sfaldamento, ma determinò anche l’avvio dello smantellamento della P2 che si era illusa di gestire la strage e a cui fu lasciata invece la corda sufficiente per strangolarsi.
La Strategia della Tensione in questo consiste: alimentare le tensioni, innescare una spirale e quindi, con la sconfitta di tutti coloro che ne hanno preso parte, imporre un salto in avanti verso un sistema politico e sociale rinnovato. Netanyahu e Hamas come la P2 e le BR? Perché no?

Perché Israele sarebbe oggetto oggi di una strategia che finora l’aveva visto sempre protagonista?
La trasformazione globale ha poco a che vedere con le panzane degli scontri tra blocchi. Proprio in Israele si scopre come i giochi tra russi, americani, sauditi, turchi, wahabbiti e, di riflesso, indiani, iraniani e cinesi, siano intrecciati. In questo momento Israele si ritrova al centro di almeno tre trasformazioni di fondo. Una che possiamo definire “estera” si lega al cambiamento dell’area merdiorientale in cui gli Usa hanno da tempo delegato a potenze regionali o macroregionali il controllo, necessariamente e volutamente conflittuale, delle zone d’importanza strategico-energetiche. Questo ha determinato che Israele debba vedersela con gli arabi, i turchi, i russi senza essere più il cavallo preferito degli americani.
Un altro elemento di destabilizzazione è il passaggio da pochi anni in qua nel novero dei produttori ed esportatori energetici, nel campo del gas naturale.
C’insegna la storia degli ultimi due secoli che i crocevia energetici sono destinati ad anarchie apparenti perché sulla stessa direttrice si tendono a sviluppare anche altri traffici (armi, uomini, minerali, droghe) e tutti gli interessi global-gangsteristici convergono nella destabilizzazione apparente che consente mani più libere alle bande e incassi che lievitano per gli interventi di mediatori criminali ad ogni passaggio. Sarà un caso, ma da quando Israele è divenuto esportatore di gas, la sua società politica è spaccata in due come mai in passato.
Inoltre, con i rigurgiti fondamentalisti di cui è affetta la società odierna, se quello talmudico ha impresso un nuovo impulso genocida in alcuni settori israeliani oggi al governo, sono comunque diversi anni che l’interpretazione del messianismo è afferrata da visioni incompatibili tra loro, contrapponendo minoranze ebraiche a minoranze ebraiche, e rendendo più ardua ma più combattiva l’identità laica, diffusissima in Israele.
Tutto questo forma una miscela che prende poi fuoco nelle contese afferrate dalla mutazione necessaria per adattarsi ad un mondo intrecciato e multiallineato nel quale è richiesta oggettivamente la cessazione delle sovranità nazional-democratiche per nuovi assetti meno democratici e più imperiali.

Israele è terreno di scontro?
Partiamo dalla premessa che chi gioca le partite sostanziali, o comunque s’impegna per gli incassi, non è mai esclusivamente un elemento esterno o un elemento interno, ma si trova su ambo i piani e agisce in forma e metodo di lobby e oligarchia.
Rigettiamo come approssimativo e troglodita uno schema semplicistico che attribuisce ogni cosa all’azione di chi manipola, gestisce e agisce con le mani libere dagli impacci giuridici, e scordiamoci pure della sua presunta infallibilità, perché sono più i guasti che deve aggiustare in corso d’opera di quanto siano perfetti i progetti ideati che si rivelano solitamente diversi da quelli che si riescono ad attuare.
Facciamo entrare in gioco fattori oggettivi, determinanti e condizionanti, che sono materiali, ma, a loro volta, rispondono a leggi cosmiche e anche metafisiche.
Il punto d’incontro tra le dinamiche e le loro trasposizioni in organizzazioni politico-sociali è mediato dalle oligarchie e dalle lobbies, le quali non sono onnipotenti ma perseguono risultati realistici che rispondano alle dinamiche condizionanti.
Questo si riversa anche sull’eccezionalità israeliana e ne modifica l’assetto e il ruolo, certamente non in modo indolore.

Da un sovranismo troglodita a un dominio d’élite
Assunto tutto ciò, ché altrimenti non ci capiamo, quelle che possiamo definire le élites strategiche mondiali tendono ad accompagnare e possibilmente ad accelerare i processi di ristrutturazione.
Il passato c’insegna che quando le ragioni oggettive richiedono questi sbalzi, essi vengono facilitati con l’esplosione di tensioni che danno l’idea parzialmente ingannevole dell’anarchia ma in realtà servono a liquidare gran parte delle strutture in piedi affinché non possano praticare più di tanto la forza di attrito in soccorso dei propri privilegi minacciati e non possano quindi fungere da freno. Dal 1961 al 1980 un’autentica rivoluzione dall’alto, o da dietro le quinte, ha accompagnato la trasformazione delle relazioni internazionali e delle società che erano comunque già avviate di per sé, e da quelle esperienze dovremmo imparare la lezione.
Non è quindi da escludere che personaggi come Trump, Putin, Netanyahu, siano stati aiutati a far scoppiare quelle contraddizioni con le quali hanno arrecato danni talvolta enormi alle proprie potenze. Questo può avere lo scopo di far comprendere come la visione arcaica di potenza sia desueta, e così preparare gestioni più elastiche e meno rozze nella nuova dimensione internazionale particolarmente interrelata e intrecciata che necessita di profili più sfumati.
È possibile che la stessa intelligentsia israeliana, o almeno una parte di essa, abbia deciso d’inchiodare Netanyahu nell’inutilità della sua muscolarità desueta e che si ricolleghi alla sofisticata strategia americana. Degli Usa si continua a ripetere a pappagallo che siano in declino, ma tutti i dati tangibili (dall’economia, alla finanza, alle relazioni multilaterali alla demografia) dimostrano esattamente l’opposto ed è difficile individuare un momento storico nel quale siano stati più potenti.

Questo è incomprensibile a uno sguardo superficiale perché gli Usa lo fanno in modo sfumato e più “inclusivo” di quanto vorrebbero i trinariciuti e i fossilizzati, i quali hanno assunto la retorica della “difesa della sovranità”, frutto di una lettura approssimativa e disorganica della realtà, mummificata nello scenario ingannevole di distrazione delle masse.
La “cessione di sovranità”, come la si chiama oggi, sta viceversa restaurando sotto nuove forme la sovranità perduta nell’internazionalismo capitalista, come dimostra proprio l’Italia che da queste “cessioni” alla Ue ha recuperato una parte di quanto era stato smarrito molto prima.
Le quote di sovranità nel mondo reale, ovvero in una dimensione che non è quella bla bla bla della vetrina per le plebi, dipendono ovviamente dai rapporti di forza e dal soft power ed è l’esito di sfide impegnative.
Gli americani sembrano stare vincendo abbondantemente la propria, anche se le loro masse, come sempre abitudinarie e lente, continuano a propendere per il bullismo dei cow boys che, se ritornasse al timone, li chiuderebbe nei recinti del ranch.
Non è improbabile che dentro Israele si stia puntando a una mutazione di tipo similare e che Netanyahu sia quindi vittima delle sue élites e abbia il compito, non voluto, di neutralizzare la visione paleolitica cui ha legato le sue fortune politiche. Il tutto per approdare ad un Israele diverso, forse meno arrogante e bullo, ma di fatto più potente.

Ovviamente sono ipotesi, suffragate da analisi e dati, che non possono comunque essere esaurienti. Ma qualcosa di sicuro c’è, altrimenti ci si deve spiegare come mai all’improvviso Israele subisca critiche pressoché unanimi e fronteggi azioni diplomatiche che lo sconfessano sostanzialmente. Escludo l’onestà generale, la libertà di parola e il coraggio morale che non ci sono mai stati in certi ambienti, peraltro lottizzati, e da cui non ce li aspettiamo di sicuro adesso, in un’epoca in cui i principi e i valori virili sono a dir poco carenti. Se oggi si può criticare agevolmente Israele, deve voler dire che ciò non soltanto è concesso ma è perfino incoraggiato.
Col che, per piacere, non si balzi per reazione alla conclusione idiota che, quindi, non va fatto.

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