Al fondo del sito web del Corriere della Sera, accanto alle valutazioni sui risultati auditel del “ciclone” D’Addario e alla notizia della finta lite fra Madonna e Lady Gaga, ieri si poteva leggere un interessante articolo che racconta la triste vicenda di una ragazza americana di 22 anni, ritrovatasi paralizzata dopo 9 mesi di coma, a causa dell’ingestione del “cibo spazzatura” acquistato in un supermercato.
Stephanie Smith, questo è il nome della sfortunata giovane del Minnesota, un paio di anni fa durante il barbecue domenicale, fece lo sbaglio di mangiare una polpetta di carne tritata contenente il micidiale E.Coli. Carne prodotta dalla multinazionale alimentare Cargill, con sede a Minneapolis e filiali praticamente in tutti i paesi del mondo, dall’Australia al Vietnam, dal Guatemala al Ghana, per arrivare alle 11 sedi presenti in Italia, dove risulta leader nella produzione e vendita di dolcificanti, amidi, aromi ed addensanti, oltre che del cibo per animali.
La carne mangiata da Stefanie Smith, che la stessa Cargill garantiva, tramite la scritta posta sulla confezione, essere selezionata e di prima qualità, una volta analizzata è risultata qualcosa di profondamente diverso da quanto garantito dalla multinazionale. Si trattava infatti di un amalgama nauseabondo (reso appetibile attraverso l’introduzione di additivi chimici) costituito da ritagli di mattatoio e grasso, centrifugati in un impianto del Wisconsin e provenienti da almeno altri tre stati americani e da un macello dell’Uruguay.
Mentre la ragazza stava lottando contro la morte nell’ospedale in cui era stata ricoverata, altre 940 persone si ammalarono, fortunatamente in modo meno grave, a causa di quelle stesse polpette, prima che la Cargill si vedesse costretta a ritirare 400 quintali di carne macinata dal mercato.
Il tragico caso di Stephanie Smith rappresenta solamente la punta dell’iceberg costituito dalla jungla in cui si dibatte il sistema di produzione e distribuzione alimentare statunitense, all’interno del quale manca non solo la capacità d’introdurre nuove regole, ma anche la volontà di fare rispettare quelle esistenti, dal momento che il rispetto delle regole comporterebbe degli esborsi economici ritenuti inaccettabili. Una jungla all’interno della quale ogni anno nei soli Stati Uniti, 70 mila persone contraggono agenti patogeni a causa dell’ingestione di cibo “spazzatura” prodotto dalle grandi multinazionali alimentari.
In Europa ed in Italia, grazie a leggi più severe e ad una maggiore cultura in fatto di cibo, la situazione è un poco migliore, anche se la globalizzazione sempre più spinta dei prodotti alimentari, unitamente alle sempre più scarse risorse economiche a disposizione dei consumatori, stanno drammaticamente avvicinandoci ogni giorno di più al modello americano. Come dimostrano i tanti casi di frodi alimentari, alcune delle quali anche di estrema gravità, che coinvolgono praticamente tutto il vecchio continente, senza risparmiare assolutamente il nostro paese.
A confermare la continua avanzata del “tritacarne globalizzato” nella conquista di nuove fette di mercato, ci sono un paio di notizie balzate agli onori della cronaca proprio in questi giorni, che riguardano l’Italia e la Francia, i due paesi forse più famosi nel mondo per la buona cucina ed il buon cibo.
A Pisa, a pochi passi da piazza dei Miracoli e dalla cupola del Battistero opera del Brunelleschi, dovrebbe aprire i battenti entro la fine dell’anno, nonostante le proteste della Confesercenti, un fast food della catena Mc Donald’s che sostituirà lo storico ristorante – pizzeria “il Giardino”.
A Parigi, all’interno del museo del Louvre, nonostante in molti abbiano storto il naso di fronte all’invadenza della gastronomia malata che diffonderà odori sgradevoli, verranno inaugurati il prossimo mese un ristorante ed una caffetteria gestite dalla catena MC Donald’s che intende in questo modo festeggiare i suoi 30 anni di presenza in Francia.
L’immagine dell’hamburger spazzatura che soppianta in maniera sempre più decisa le specialità gastronomiche locali, rende perfettamente il senso dell’omologazione al ribasso, imposta anche in campo alimentare dalla società globalizzata. Un’omologazione che mira a sradicare i cittadini dalla propria cultura e dalle proprie radici, nel tentativo di renderli “consumatori perfetti” per prodotti standardizzati di bassa qualità che possano venire veicolati con uguale successo in tutto il mondo, quasi si trattasse del mangime destinato agli allevamenti di polli in batteria.