Il Libano, attaccato anche nelle finanze
Non è bastata una delle peggiori crisi economiche della storia a far dimettere il veterano governatore della Banque du Liban, Riad Salameh, non basterà un’indagine della magistratura. Su di lui, il giudice Ghada Aoun ha imposto un divieto di viaggio per alcuni reati: riciclaggio, appropriazione indebita, arricchimento illecito e utilizzo dei fondi pubblici. A queste accuse Salameh dovrà fornire la sua versione dei fatti, e non soltanto alla giustizia libanese. È infatti indagato anche in quattro Paesi europei, tra cui Francia e Svizzera, dove l’anno scorso è stata aperta un’indagine anche sui guadagni del fratello del governatore. A Parigi, invece, Salameh avrebbe affittato, attraverso la Banca di cui è governatore, un appartamento sugli Champs-Élysées a un prezzo gonfiato. Da parte sua, il banchiere più longevo del mondo – al suo quarto mandato come presidente della Banca, che guida dal 1993 – ha già negato qualsiasi tipo di responsabilità e rigettato al mittente le accuse, a suo vedere motivate politicamente.
Il tutto rientrerebbe in un gioco appositamente orchestrato per screditarlo e “per ingannare l’opinione pubblica”, è la sua versione. La notizia trapelata dal quotidiano locale Al-Akhbar, secondo cui il primo ministro Nakib Miqati sarebbe stato pronto a dimettersi qualora fosse stata avviata una procedura contro Salameh, aveva creato ancora più confusione. Per venire incontro al governatore, il premier avrebbe provato a fare pressioni sul giudice Jean Tannus, per strappare dati e informazioni sulle indagini. La smentita del primo ministro è arrivata però puntale. “Non è vero che abbiamo interferito nei lavori della magistratura” ha garantito, sottolineando come qualsiasi azione del governo non è volta “a difendere gli individui ma a preservare le istituzioni”. Per il giornale, tuttavia, Miqati non ha pienamente smentito la notizia. Al contrario, l’avrebbe indirettamente confermata.
Al momento, l’unico alleato del governatore Salameh sembrerebbe proprio il governo di Miqati. A fine anno, il premier aveva ribadito nuovamente la fiducia nel banchiere e rinsaldato la sua posizione alla guida della prima istituzione economica del Paese. “Non si cambiano i propri ufficiali durante la guerra”, aveva dichiarato Miqati. Da quel momento, la lira libanese ha perso un ulteriore 15% del suo valore rispetto al dollaro, arrivando a una svalutazione del 95%. Nel giro di due anni, lo scambio tra la moneta statunitense e quella libanese è passato da 1/1.500 del 2019 a 1/33.000. Per comprendere la rapidità con cui cresce il divario, basti pensare che meno di due settimane fa la lira veniva scambiata a 27.000. Le spese di questa drammatica situazione le stanno pagando i libanesi, tre quarti dei quali vivono in povertà. L’inflazione, a cui sembra impossibile porre un freno, è ormai arrivata a livelli record mondiali e il continuo aumento del prezzo dei beni essenziali sta gettando nell’incubo un intero Paese, incapace di trovare una soluzione.
“Il tracollo economico causato da anni di governo di questa sfera politica ha prosciugato, estenuato e intorpidito i libanesi”, spiega ad Huffpost Chris, un ragazzo di trentuno anni che vive nella periferia di Beirut, da dove sta osservando il disgregarsi del suo Paese. “Il Libano è un diamante grezzo. È un Paese di paradossi, con uno straordinario potenziale non sfruttato, soffocato da una classe dirigente corrotta. Non abbiamo istituzioni, sono lì solo per nome. E i politici o sono mafiosi o milizie (o entrambe)”. La distanza che separa la gente comune da chi ricopre cariche istituzionali è abissale, dato lo stile di vita completamente opposto. I politici hanno perso qualsiasi tipo di credibilità agli occhi della popolazione, che si guarda bene prima di affidarsi alle istituzioni.
Alla crisi economica e allo stallo politico che non permettono al Paese di avere una stabilità a lungo termine, si devono aggiungere il disastro del porto di Beirut – esploso ad agosto 2020 per l’incuranza di chi doveva mettere in sicurezza il deposito di nitrato di ammonio – e lo scandalo dei Pandora Papers – in cui figurano personaggi delle istituzioni come il primo ministro Miqati –, che non hanno certo aiutato la politica a riconquistare fiducia. “Il denaro della gente è tenuto in ostaggio dalle banche. Le persone hanno visto i loro soldi perdere valore e praticamente tutti i loro risparmi sono andati”. Risparmi che la popolazione cerca di salvare perlomeno per far fronte alle spese quotidiane, diventate ormai insostenibili. “I prezzi sono aumentati drasticamente”, conferma Chris. “Ad esempio: il pane una volta costava 1.500 LBP – la moneta nazionale – mentre oggi è aumentato di 10.000 LBP. Il cibo è diventato estremamente costoso. Troviamo ancora la maggior parte dei prodotti, ma non della stessa qualità. Gli scaffali dei supermercati non sono più pieni come una volta”.
Problemi di ogni giorno, a cui un libanese deve far fronte da solo. “Le sovvenzioni sono state revocate per quasi tutto. Dal pane al carburante, fino alla maggior parte dei medicinali”, merce rara nel Libano contemporaneo. “Stiamo avendo carenza di medicine. Sui social media, leggi sempre di post con cui le persone chiedono questo o quell’altro medicinale. Ormai, per amici e familiari che arrivano dall’estero, è diventata usanza chiedere se sono necessarie medicine particolari”. L’unico aiuto proviene, appunto, da fuori i confini nazionali e dalle rimesse: “Molte persone fanno affidamento sui loro parenti che gli inviano denaro a casa”.
La naturale reazione di una parte della popolazione è stata quella di scendere in piazza. Le proteste sono cicliche, così come gli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti – o tra manifestanti stessi di diverso credo politico o religioso, come testimoniano le scene di guerriglia andate di scena a ottobre tra gli sciiti di Hezbollah e cristiani – e non fanno altro che aumentare la tensione in un Paese già sul punto di esplodere. Le continue interruzioni di elettricità lasciano le città al buio per ore intere. Proprio l’ennesimo blackout causato dalla carenza di forniture alla centrale di Aramoun, a nord della capitale, ha scatenato una nuova protesta. La compagnia elettrica che distribuisce l’elettricità nel Paese ha incolpato i manifestanti di aver sabotato la rete elettrica, aggravando una situazione già critica.
Il prezzo del gas e della benzina è aumentato di almeno dieci volte e l’elettricità arriva per massimo quattro ore al giorno. Chi può permetterselo si affida a una rete privata di generatori elettrici, “la maggior parte dei quali in mano ai politici”, ci dice Chris. Per provare a sopperire alla carenza di energia, a ottobre Beirut aveva stretto accordi con Egitto e Giordania per importare dalla Siria forniture di gas ed elettricità. Il movimento di Hezbollah, invece, si era mosso autonomamente rivolgendosi all’Iran: da Teheran, infatti, aveva ricevuto il via libera per trasferire il petrolio stoccato sempre in Siria. L’arrivo dei camion con i barili di benzina iraniana, oltre a essere uno smacco alle sanzioni statunitensi, era stata una mossa del Partito di Dio per apparire come unico vero interessato al bene della popolazione. Come sostiene Chris, gli uomini di Hezbollah dividono la comunità internazionale tanto quanto gli stessi libanesi. “Alcune persone li vedono come i salvatori” e, anche se spesso il loro operato è poco trasparente, “li seguono ciecamente”. Altri, invece, “li considerano come un male necessario e un deterrente per Israele. Per altri ancora”, continua, “Hezbollah rappresenta il problema del Libano e vorrebbero confiscare o distruggere il suo arsenale bellico. Molti di questi, infatti, ritengono che il Libano si trovi sotto una forte influenza iraniana: per alcuni è addirittura un’occupazione”.
Il buio in cui è avvolto il Libano è pertanto più denso di quanto si possa credere. Come ci tiene a precisare Chris, però, è proprio la comunità civile che sta provando a squarciarlo nel tentativo di far entrare un po’ di luce. Piccoli passi in avanti vengono compiuti dalle varie ONG che lavorano sul territorio, mentre alcuni movimenti tentano di dare nuova linfa alla politica. La poca esperienza e i rapporti con alcuni politici del vecchio corso, tuttavia, ne inquinano le intenzioni. Così, la speranza arriva dalla vita di tutti i giorni. “Le persone provano ancora ad andare in giro per ristoranti, nei bar, cercando di vivere normalmente e trovare un po’ di gioia. Si incontrano nelle case, fanno escursioni e provano a trovare modi semplici per godersi la vita. Nonostante tutte le difficoltà, non possiamo smettere di vivere”.