Home Alterview Sempre meno Parlamento

Sempre meno Parlamento

0


Grazie anche alla pandemia il decisionismo si fa strada un po’ ovunque

Il 2021 è stato l’anno dei colpi di Stato, delle proteste, delle grandi incertezze. Tra governi rovesciati, tentativi eversivi, jacquerie di vario tipo si è confermato un trend di crescente instabilità della democrazia e della stabilità amministrativa di diversi Paesi che il 2022, aperto del caos kazako, sembra destinato a confermare.

2021, l’anno dei golpe
Poco più di un anno fa le prime immagini a fare il giro del mondo nel 2021 sono state quelle di Capitol Hill, dell’assalto dei manifestanti che protestavano per i presunti e mai provati brogli a cui imputavano la sconfitta di Donald Trump contro Joe Biden al cuore del potere demoratico statunitense. Il caos della giornata dell’Epifania è stato uno shock senza precedenti per gli Usa e l’Occidente, ma ha anche reso palese ovunque che il mondo era attraversato da tensioni latenti destinate a scaricarsi a terra.
E così è stato: il mondo ha conosciuto nel 2021 cinque colpi di Stato di successo. Quattro di questi hanno avuto luogo in Africa: in Ciad la morte in battaglia contro i ribelli provenienti dalla Libia dell’anziano presidente Idriss Deby ha portato, all’inizio del maggio scorso, le forze armate a prendere il potere installando un Consiglio Militare di Transizione che ha posto il figlio del defunto presidente, il 37enne Mahamat Deby, a capo per diciotto mesi, esautorando totalmente l’Assemblea Nazionale. In Mali, invece, alla fine dello stesso mese un regolamento di conti interno alla giunta che aveva preso il potere solo nove mesi prima, dall’altisonante nome di Comitato nazionale per la salvezza del popolo, ha condotto all’arresto del presidente Bah Ndaw e del primo ministro Moctar Ouane, seguiti dalle loro dimissioni e successivo rilascio, e all’esautorazione dai rispettivi ruoli. Il vicepresidente Assimi Goïta è stato proclamato presidente e Choguel Kokalla Maïga nominato primo ministro.
A settembre, in Guinea, l’83enne presidente Alpha Conde, in carica dal 2010 e al terzo mandato nonostante la Costituzione ne prevedesse un massimo di due, è stato rovesciato. Il capo delle forze speciali Doumbouya, circondato dai suoi, ha annunciato alla tv di Stato di aver catturato il presidente e preso il controllo, e la sostituzione dei governatori con i militari. Infine, a ottobre è stata la volta del golpe in Sudan, a due anni di distanza dalla mossa che ha sovvertito Omar al-Bashir per mano degli ex alleati militari.
In Asia, invece, a febbraio il generale Min Aung Hlaing, con il supporto dell’ex vicepresidente Myint Swe (ora presidente), ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi, controversa ma legittimata dai primi voti democratici nel Paese. Il golpe sanguinoso ha prodotto violenze e centinaia, se non migliaia di morti civili: “I militari hanno occupato e trasformato in loro basi gli ospedali statali, le pagode e le scuole chiuse per il coronavirus”, ha scritto l’Ispi. E da mesi “sparano in modo indiscriminato, ad altezza-uomo contro chiunque: manifestanti, passanti, bambini che giocano all’aperto. Entrano nelle case degli oppositori politici o di famiglie scelte a caso per diffondere il terrore”.
Aggiungiamo a questo il “golpe bianco” della Tunisia e il caos politico in Libia e il quadro è quasi completo. Va aggiunto l’ultimo, drammatico tassello: il rovesciamento della Repubblica Islamica dell’Afghanistan da parte delle milizie dell’Emirato Talebano che ad agosto in poche settimane hanno occupato il Paese. Portando al raro caso di un controllo assoluto di un Paese da parte di un’entità statuale strutturata ma sorta completamente fuori dall’ordine mondiale westfalico o multilateralista.
Per quanto riguarda le proteste, la Bielorussia a fine 2021 e il Kazakistan a inizio 2022 insegnano che diversi poteri hanno dichiarato un sostanziale “liberi tutti” nel concedere agli apparati repressivi mano libera.

Democrazia in ritirata
Insomma, la corsa globale alla democrazia si è, da tempo, fermata e ora si assiste a un riflusso graduale. L’ordine politico costituito nei Paesi più avanzati è in larga misura sfidato, per ora, solo da proteste marginali e legate alla lotta alla pandemia, ma il caso statunitense insegna che i semi di un conflitto civile latente e a bassa intensità possono germogliare quando meno un Paese se lo aspetta.
L’idea di puntare sulla democrazia come vettore geopolitico promossa da Joe Biden, nota Formiche, non poteva conoscere tempismo peggiore per essere attuata: “questa scelta politica che si sintetizza nell’idea del Summit delle Democrazie è messa in difficoltà da crepe interne a certi Paesi — crepe che la pandemia ha approfondito, allargato — e da uno scontro tra modelli su cui si confrontano dall’altro lato gli autoritarismi come la Cina, la Russia, l’Iran. Sponda questa allettante per le monarchie del Golfo, per i presidenzialismi estremizzati dell’Asia Centrale, per alcune più traballanti pseudo-democrazie africane i asiatiche e perfino per qualche membro dell’Ue come l’Ungheria” di Viktor Orban.

Il mondo è anarchico
Parimenti, tensioni, golpe, fibrillazioni politiche vanno accumulandosi aggiungendo caos a caos in un contesto già segnato da diverse crisi strategiche la cui risoluzione definitiva è come cristallizzata dalle grandi potenze: dall’annosa questione del Kashmir al dualismo politico in Venezuela, dalla Siria al Donbass. E non bisogna sottovalutare che tutto questo contribuisce al processo di centralizzazione delle periferie in cui si può leggere un riflesso della rivalità tra le grandi potenze. Il golpe maliano e quello sudanese, ad esempio, possono apparire come decisamente favorevoli alla posizione geopolitica della Russia; la morte di Deby ha eliminato un grande alleato della Francia e della Cina nel Sahel; Pechino, invece, guarda con attenzione la partecipazione del Myanmar alla sua Nuova via della Seta e teme un riavvicinamento dei militari agli Stati Uniti in caso di distensione.
Alle periferie estreme del pianeta, in Oceania, nelle Isole Salomone è in corso un lapalissiano tentativo di desatellizzazione da parte delle potenze occidentali portando alla nascita di uno Stato a sé nell’isola di Bougainville con proteste scoppiate al termine del biennio del governo Sogavare, al quale si deve il disconoscimento di Taiwan a favore della Repubblica Popolare Cinese. Mentre Pechino può avvantaggiarsi del caos scoppiato nei residui imperiali della Francia, tanto in Oceania (Nuova Caledonia) quanto nelle isole caraibiche, Guadalupa e Martinica e nella Guyana Francese. Povertà e anti-vaccinismo sono il pretesto, ma il caos scoppia perché le potenze soffiano sul fuoco del conflitto e le periferie si infiammano mentre Paesi e dipendenze diventano territorio conteso. Questa tendenza sarà sempre più incentivata in futuro se l’ordine globale si farà sempre più anarchico. E casi come quello kazako o le tensioni in Donbass, ove è pure aleggiata la voce di un nuovo tentativo di golpe contro il presidente ucraino Voldymir Zelenski, segnalano che quando l’incendio dalla periferia si avvicina sempre di più al centro spegnere le fiamme è, giorno dopo giorno, un processo sempre più complicato. Nel caos del mondo “virato”, anche questa anarchia internazionale testimonia l’assenza di riferimenti certi. E un mondo competitivo e senza regole, un vero e proprio Far West geopolitico, non è una buona notizia per nessuna grande potenza.

Exit mobile version