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Non parleremo neppure più italiano

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E sulla stampa lo chiamano “il paesino salvato dagli immigrati”….

ACQUAFORMOSA (CS) – Altro che risorsa. Da queste parti gli immigrati sono i salvatori della patria. O meglio, del Comune. Sì perché, se non ci fossero loro, il Municipio di Acquaformosa, sperduto paesino nel cuore del Pollino, sarebbe destinato a scomparire, scendendo sotto la fatidica soglia dei mille abitanti per essere inglobato, secondo le regole della nuova manovra fiscale, al Comune più vicino con oltre mille abitanti. Tra queste splendide e isolate montagne il tempo sembra immobile, Cosenza dista oltre un’ora di pullman e ogni piccola amministrazione comunale lotta contro l’agognato fenomeno dello spopolamento, un travolgente decremento demografico che annualmente erode ampie fasce di popolazione mettendo a rischio l’esistenza stessa dei piccoli paesini, dove i giovani emigrano appena possibile e i vecchi affollano strade sempre più svuotate di vitalità.
IL PAESE IN CONTROTENDENZA – Ad Acquaformosa, neppure 1.200 abitanti in tutto, sta succedendo l’esatto contrario e il paese comincia pian piano a rivitalizzarsi. Merito del sindaco Giovanni Manoccio (Lista Civica Acquaformosa) – già famoso alle cronache per aver denominato il suo paese «Comune deleghistizzato» – che da circa tre anni, in virtù dei progetti Sprar (il Servizio di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati del Ministero dell’Interno), ha offerto la residenza entro le proprie mura a varie famiglie di profughi. Poco meno di trenta persone (quattro nuclei familiari), ma che hanno contribuito a rimettere miracolosamente in moto un sistema socio-economico destinato al declino. Ogni famiglia, in fuga da guerra o povertà, vive in spaziose case nel cuore del paese. Merito anche del profondo senso d’accoglienza che da sempre contraddistingue gli acquaformositani, le cui origini si perdono nella tradizione arbreshe, gli albanesi d’Italia, sbarcati qui nel 1.400 ma le cui tradizioni resistono intatte in tutto il paese, dove cartelli, piazze e vie portano scritte in doppia lingua. Il primo cittadino, seduto nel suo modesto ufficio con una scintillante maglietta rossa con l’effige di Che Guevara, sfoggia tutto il suo orgoglio: «Senza l’arrivo dei profughi, che qui hanno trovato un po’ di tranquillità, nel giro di pochi anni Acquaformosa sarebbe stato eliminato e inglobato a Lungro», il Comune più vicino, a 4 chilometri di distanza e con oltre 3mila abitanti».
PROGETTO SPRAR – «La presenza dei migranti attraverso i progetti Sprar – spiega meglio il primo cittadino, che ha avviato i progetti dopo aver studiato il virtuoso modello d’accoglienza del più popoloso Comune di Riace – ha creato occasioni lavorative per chi altrimenti non avrebbe avuto alcuna possibilità». Come i nove ragazzi dell’associazione Don Vincenzo Matrangolo, che lavorano tutto l’anno nella gestione e nella tutela dei profughi, oltre agli interpreti, all’incremento di operatori nella macchina comunale e ai negozi alimentari che hanno aumentato le vendite. Come se non bastasse, la presenza di sedici alunni migranti (circa il 20 per cento degli studenti del paese) tiene alla lontana lo spauracchio della chiusura della scuola pubblica, che rischierebbe l’accorpamento, vista la scarsità di scolari, con quella del Comune più vicino.
I DATI DEMOGRAFICI – A parlare ancora più chiaro, aldilà della parole del sindaco, ci sono i dati demografici: circa venti decessi ogni anno, contro un numero di nascite che si contano sulle dita di una mano. Gli over 65 costituiscono ancora quasi il 40 per cento della popolazione e le vie del paese sono sature di anziani e bastoni. Un trend che però potrebbe invertirsi presto, visto che quest’anno sono già tre i nuovi nati. Di questi, due sono figli di profughi. Il più celebre è Giovanni, così chiamato in onore del sindaco, figlio di Larry e Blessing, coppia nigeriana fuggita dalla povertà dilagante di Benin City dopo una lunga traversata del deserto e la travagliata odissea del Mediterraneo. Poco importa se Giovanni ha la pelle nera e di cognome si chiama Onaiwu: è diventata la mascotte del paese, il simbolo della rinascita contro lo spopolamento; ha il sangue nigeriano, ma è calabrese di nascita. In paese lo adorano, lungo le viuzze che si arrampicano tra i monti del Pollino, tutti gli abitanti fanno a gara per prenderlo in braccio. Suo fratello, David, tre anni, parla mezzo calabrese e mezzo nigeriano. Suo padre, Larry, è ingegnere elettrico e dovrebbe essere assunto nel giro di poche settimane in un’impresa locale. Da casa della famiglia Onaiwu la vista sulla piana di Sibari è incantevole: «Se trovo un lavoro, resto qui a vita» dice Larry. Tra i migranti accolti ci sono anche due famiglie armene, una delle quali di origine curda. Poche settimane fa, nell’ambito dell’emergenza nord Africa, è arrivata una famiglia dal Ciad (mentre un’altra dovrebbe arrivare nei prossimi giorni), sbarcata a Lampedusa dopo una terribile epopea con due figli piccoli al seguito. La madre, incinta, partorirà il terzo figlio tra poche settimane. E in paese sarà nuovamente festa, una festa di benvenuto ad un altro cittadino acquaformositano.
Lo chiamano “il paesino salvato dagli immigrati”. Eccolo qui già in pochi mesi il bilancio della “primavera araba”. L’Italia non ha più una politica estera, non ha più che spiccioli di politica energetica, fa fronte a spese inconsulte e, per gli interessi di cassa dei soliti geni, smetterà presto anche di parlare italiano.

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