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Non si onora così chi combatte

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Bava e lacrime fanno peggio delle mine

I combattenti vanno onorati. Non vanno pianti quando muoiono perché è offensivo: vanno onorati. Senza riserve: non ha senso subordinare il rispetto per loro alle considerazioni politiche, questa è una stortura dei tempi. Lo dico tanto a quelli che non intendono celebrarli in quanto sostengono che sono partiti per una causa sbagliata sia a coloro che, al contrario, li onorano perché credono che quella guerra sia giusta.

Dirò di più. Le persone che provano rabbia e fastidio per la loro esaltazione, li denigrano forse meno di quelle che per onorarli li ricoprono di frasi ipocrite. Sono coloro che più li celebrano ad offenderli maggiormente oggi perché non rendono onore a loro ma sciorinano retoricamente il vocabolario di un comune, “condiviso”, rassicurante, immaginario mediocre.

Si dice, si tace, si contraffà

E’ lecito non sapere o fingere d’ignorare che in Afghanistan siamo al rimorchio angloamericano per la razionalizzazione del mercato dell’oppio ma davvero nessuno è all’oscuro del fatto che facciamo parte di una missione che contende a russi e cinesi il controllo geopolitico di un’arteria strategica per conto esclusivo di Washington. Siamo lì da subalterni, obbligati a fare gli interessi di chi ci domina: è palese. Ma non lo si dice se non da parte di chi intende condannare i Caduti. Lo si dice, insomma, solo per denigrarli mentre per onorarli lo si tace, si contraffà la verità. Come se fosse oramai impossibile capire che chi muore sotto la nostra bandiera debba essere onorato per sé e per un senso compiuto del noi. Non per le ragioni dei mandanti e men che meno per retoriche d’accatto. Non è dignitoso sofisticare la realtà per renderla più appetibile ai palati borghesi abituati al gusto delle spezie che nascondono quello della selvaggina. Perlomeno non dovrebbe essere consentito quando si celebra chi ha fatto la scelta di vita – e di morte – di difendere nel suo essere un fondo di magnifica autenticità barbara anziché confondersi con le ombre e le larve nella nebbia artificiale dei civilizzati.

La storia delle società borghesi è contrassegnata dal secolare ostracismo dei guerrieri, utili sì a difendere i commerci dei benestanti, ma relegati ai confini lontani, espulsi in qualche modo dalla società “per bene”, allontanati fisicamente e pure dialetticamente mediante le storture che li trasformano in impiegati estremi dell’ideologia dominante. E la società di oggi, forse già post/borghese ma di sicuro malaticcia, non fa eccezione nella violenza ai forti.

Servono uomini

Sostenere, come fanno più o meno tutti, che uomini partiti per la guerra siano morti “in missione di pace” e “per la democrazia” è più offensivo che trattarli da scherani. Qualunque cosa si pensi della democrazia e del diritto di esportarla malgrado il parere degli importatori, è impossibile non rendersi conto che esistono intere zone del pianeta in cui a nessuno interessa imporla: perché quelle regioni non hanno valore geostrategico, fonti energetiche o piantagioni di oppio. Ritenere che chi ha fatto una scelta d’armi sia partito per imporre una democrazia di cui non si sa bene cosa realmente pensi, in luoghi dove mafie e multinazionali ne abbisognano non è di sicuro un epitaffio alla sua altezza.

Pretendere poi che siamo lì in missione di pace sarà anche politicamente corretto ma è un’assurdità, spingendo il concetto all’estremo sarebbe un po’ come dire che una pulizia etnica è una missione di regolamentazione demografica. E sostenere ciò di chi è andato a combattere in un focolaio e, così facendo, ha contribuito ad alimentare le fiamme, è soprattutto una mezza bestemmia. Chi ha scelto il mestiere delle armi è un guerriero e in quanto tale va onorato, specie nella morte. Ma per onorarli servono uomini, una specie sempre più rara. Cui appartenevano coloro di cui parliamo e che sono morti compiendo il loro dovere, che non richiede adesione politica ma fermezza esistenziale. Ma mi chiedo di cosa parlo e a chi.

 

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