Israele nei mutati scenari
L’assalto sanguinoso fuori dalle acque territoriali da parte delle forze armate israeliane al convoglio pacifista ha fatto sensazione.
L’indignazione e la collera sono reazioni naturali; per molti che le provano da tempo, e per ragioni più valide e meno mediatizzate di quelle odierne, questi sentimenti non sono certo inediti.
Tuttavia una reazione internazionale così compatta non la si ricorda proprio; neppure al tempo della Guerra dei Sei Giorni Israele subì un simile isolamento.
Non è un déjà vu
Abituati allo strapotere israeliano e al legame storico tra Washington e Tel Aviv i più danno per scontato che si tratti di una semplice reazione di facciata, la replica del solito film per allocchi.
Non ci giurerei.
La mente umana è ripetitiva e pensa di vivere sempre in un déjà vu.
Se poi si è costruita su schemi riassuntivi corretti vi si fossilizza, rifiutando a priori i mutamenti delle cose. E’ per questo che i più furono sorpresi dalla caduta del Muro di Berlino; ed è la stessa ragione per la quale due anni orsono, in occasione della crisi georgiana, in pochi capirono che la Ue avrebbe sconfessato sostanzialmente gli Usa, come in realtà fece.
Perché biosgna comprendere che la situazione cambia e non di poco, ed è per questo motivo che non è assolutamente vero che le posizioni cui siamo abituati saranno tenute eternamente: le nuove condizioni anzi possono dettare dei veri e propri rovesciamenti.
Dopo il tramonto del bipolarismo si è creduto che potesse dominare il mondo un’unica Superpotenza, quella americana, con il sostegno di due alleati irrequieti, Gran Bretagna e Israele: una globalizzazione atlantica.
In realtà si trattava di un tentativo di contenere una situazione che sfuggiva di mano a numerosi oligarchi wasp, ma non a tutti.
La crescita dell’Asia, l’affermazione del quadrliatero BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), l’istituzione dell’Euro, i primi vagiti della Ue, insieme alla crescita regionale dell’Iran e alla rimessa in discussione di alcune scelte geo-energetiche e geo-economiche hanno modificato, sostanzialmente molto più che non formalmente, la politica mondiale.
Un repentino isolamento
Da qualche anno in qua, da prima ancora dell’esplosione della crisi finanziaria, gli Usa hanno iniziato a rivedere le posizioni internazionali adattandole ad un pluri-polarismo nel quale cercano di mantenere un primato divenuto relativo ma comunque difficile da mantenere.
Questo si è ripercosso pesantemente sulla Gran Bretagna, la potenza in maggior declino.
E ciò minaccia Israele. Lo Stato ebraico non ha perso tempo ed ha intavolato a sua volta politiche spregiudicate a tutto campo, aprendo alla Cina e all’India, confermando, almeno fino ad un anno fa, la sua disponibilità a rafforzare la potenza regionale iraniana in chiave anti-araba.
Ma, privata della certezza di sostegno strategico statunitense, la potenza israeliana ha finito col pagare l’eccessiva spregiudicatezza della sua politica.
In particolare la carta curda, giocata da Tel Aviv sulla dorsale strategica, ha innervosito non solo l’Iran ma la Turchia, fino a poco tempo fa il principale partner oggettivo israeliano in Vicino Oriente. E come se non bastasse tra Israele e Gran Bretagna la tensione si è alzata di molto.
D’un colpo solo Tel Aviv si è ritrovata isolata.
Dopo trent’anni, per la prima volta le ragioni di attrito con Teheran hanno superato quelle di cointeresse (che è un po’ quel che accadde tra Washington e Mosca dopo ben settant’anni di rivalità complice). Ma c’è di più: la Turchia si è fatta due conti e si è avvicinata alla Russia e alla Ue ed ha teso la mano all’Iran.
Sa la Turchia che gli Usa, che con Teheran sono fermi più nelle parole che nei propositi, intendono utilizzarla ufficialmente come scudo anti-iraniano, per tenere così in scacco Vicino Oriente ed Europa.
Lo sa a tal punto da averlo dichiarato ufficialmente sulla stampa turca (Haluk Ozdalga, a nome del partito di maggioranza sul quotidiano Zaman)
Il nucleare civile
Qui entra in gioco, appunto, il deterrente iraniano. Ma non è solo esso che conta, e che inquieta Israele, quanto piuttosto il nucleare civile. Perché un’iniziativa turco-brasiliana ha di recente proposto un accordo per stoccare in Turchia parte dello stock di uranio dell’Iran in cambio di combustibile nucleare da destinare a Francia e Russia. L’Iran non fa mistero di essere disposto a rinunciare al nucleare militare e, colpo di scena solo per i meno attenti, la comunità internazionale in risposta alla campagna anti-Teheran ha invece chiesto a Israele di mettere le sue testate sotto il controllo internazionale.
Gli Usa hanno votato contro, ma è sempre più chiaro che sono tiepidi sull’argomento, molto più di quanto lo siano stati negli ultimi quarant’anni.
Minaccia atomica?
A questo punto Israele si sente in pericolo a prescindere dall’atomica iraniana: nell’area ha perso praticamente ogni partner, giocandosi in un colpo solo Iran e Turchia. I suoi interessi sono sempre meno coincidenti con quelli della Ue, in particolare se per approvigionarsi di gas questa si orienta, come sembra chiaro, al South Stream e non al Nabucco, tagliando così fuori il controllo atlantico-israeliano. Gli Usa nei limiti del possibile vogliono smarcarsi da una situazione inchiodata.
Se così continuassero ad andare le cose, presto resterebbe un Paese in crisi demografica, economicamente improduttivo, privo di entroterra, completamente isolato.
Un Paese che, messo alle strette, non avrebbe alcuna remora ad utilizzare le sue testate nucleari.
Duecento secondo le stime ufficiose, oltre quattrocento secondo le fonti più informate, molte delle quali puntate sulle principali città europee.
Esasperazione e proccupazione
L’assalto al convoglio pacifista in acque internazionali forse può essere letto così: un segnale a tutti della disponibilità israeliana a utilizzare, se necessario, persino l’atomica e, comunque, a non lasciarsi isolare. Israele ha probabilmente calcolato che il tempo gioca contro i suoi interessi e che fosse quindi meglio innescare la crisi subito, anche da posizioni di palese torto, piuttosto che attendere.
Per la prima volta da tempo immemore entriamo quindi in rischio bellico di dimensioni tutte de decifrare.
Israele stavolta più che tracotante sembra però una nazione esasperata e preoccupata.
La situazione è in evoluzione continua e tutto può accadere, non solo quello che Tel Aviv paventa ma anche il recupero di alcuni equilibri che al momento sembrano saltati.
Perché se è vero che tutto è mutato rispetto a quattro o cinque anni fa è pur vero che il cambiamento reca in sé gran parte degli uomini, degli apparati, delle mentalità e delle relazioni dello status precedente e quindi fornisce ipotetiche soluzioni antiche, benchè sicuramente transitorie.
Sarebbe quindi errato sostenere che l’isolamento israeliano sia irreversibile e persino che si avvii ad esserlo; ma più sbagliato ancora è sostenere il contrario.
Oggi, per le varie potenze, è il tempo delle possibilità.
Ed è con questa mentalità che sarebbe opportuno leggere gli eventi che accadranno anziché restare imprigionati in chiavi interpretative che furono corrette ma che iniziano ad essere datate.