Referendum: perché mi convince di più l’astensione
La consultazione referendaria non mi pare motivo degno di polemiche.
Ed è per questo che non intendo censurare le scelte che molti intorno a me intendono compiere; quelle di votare i due SI contro la privatizzazione dell’acqua e contro la speculazione sull’acqua. Per gli altri due, specie per il quarto, ho difficoltà a capire il senso del SI, ma ognuno la pensa come vuole.
Perché sabotare il quorum?
Perché io ritengo invece che anziché votare sia più opportuno sabotare il quorum?
Per vari ordini di motivi.
Entrando nel merito: abbiamo visto – e ripreso su noreporter – come Loris Palmerini ha smascherato la truffa. L’abrograzione di una legge inapplicata (quella della privatizzazione dell’acqua, appunto) servirebbe solo alle multinazionali per passare senza più ostacoli alla privatizzazione effettiva. Ed è questa l’unica ipotesi per la quale la scelta, se passasse, potrebbe poi essere rispettata, a differenza di quanto è avvenuto più volte in passato quando l’esito delle urne non piacque ai piani alti.
Sul nucleare invece va detto che la disputa si è tenuta fra opposti fondamentalismi idioti e arroganti, ma che l’unica leva reale di un referendum del genere non può essere che quella di sfruttare le angosce diffuse per poter prolungare i privilegi degli attuali lacché dei gestori energetici.
Sul serrate contro il legittimo impedimento, a prescindere dalle valutazioni di parte, l’unica cosa che di fatto si chiede agli elettori è di ratificare la dittatura togata e, di converso, il ricatto permanente sui governanti, mantenendo l’Italia in una condizione d’inferiorità politica che non esiste nelle altre nazioni in cui, giustamente, chi governa risponde solo dopo aver governato di suoi presunti delitti, che non si tratti ovviamente di tradimento, strage, omicidio.
E’ palese ai miei occhi che votare SI per il terzo e per il quarto referendum equivale ad auspicare per l’Italia un futuro a livelli di colonie centrafricane.
Cosa conta il tuo voto?
Tutto ciò però è un insieme di riflessioni nel merito dei referendum che purtroppo non contano più di tanto perché a poco o nulla serve come si voterà. Rammento che gli italiani hanno votato per l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti e se lo sono ritrovato come se niente fosse. Hanno abrogato – forse inconscientemente – il ministero dell’agricoltura e si ritrovano il ministero per le politiche agricole.
Questo mentre i danesi votarono NO all’entrata nell’Unione Europea e ce li hanno infilati lo stesso.
Comprendo gli innamoramenti per la democrazia diretta che sento intorno a me e che sono dettati dall’auspicio che essa possa subentrare agli imbrogli della delega, ma non li condivido. Non sul piano teorico, che ci sta tutto, ma su quello pratico, perché la democrazia referendaria si è rivelata una mastodontica presa in giro e non intendo parteciparvi. Quello che si vota ai referendum non conta, a meno che non si ratifichi una volontà dall’alto, per la quale l’unica cosa che serve è il raggiungimento del quorum.
Diamo allora per buono che i SI contro la privatizzazione delle acque non siano quelle autoreti che ci ha documentato Palmerini, ma che siano soltanto voti inutili che avrebbero però il pregio di manifestare una propria tendenza. Quest’interpretazione non la condividerei facilmente perché ci sono rischi altissimi di broglio (e chi ha seguito qualche spoglio sa che i brogli sono miriadi) e quindi ci si potrà ritrovare come votanti anche per i referendum scartati, avendo magari fatto passare ignari il quorum per il quarto quesito che è il solo davvero in gioco. E che ha la doppia valenza di essere antinazionale e anche di fornire supporto all’avanzata dei Proci che vaneggiano di un nuovo CLN al potere dopo che hanno sabotato il Berlusconi IV. Un Berlusconi IV, oramai disarmato e inutile e quindi forse sostituibile con qualsiasi cosa. Ma perché mai farsi possibili complici involontari dei congiurati di quella gerontocrazia che parla, provincialmente, l’inglese? E che ha sete di sangue – soprattutto il nostro – e di distruzione?
Del voto e della lotta
Andare a votare, per me, non ha molto senso, dunque. Non ce l’ha se si è consapevoli che la democrazia elettorale è una trappola ed una truffa.
Un tempo la gioventù in rivolta diceva “il popolo non vota, lotta”. C’era del velleitarismo indubbiamente in quello slogan, ma non era privo di senso.
Ho passato anni ed anni a cercare d’individuare i meccanismi reali e non fittizi con cui si muove la politica dietro le maschere democratiche. E’ indubbio che il popolo voti anche e pure volentieri; ma è chiarissimo che il voto avviene a valle, a risultato pressochè scontato, mentre i giochi da cui scaturisce anche il voto si fanno a monte. E se non si compete a monte è meglio non farsi trascinare a valle.
Ad una casta dominante non è mai il voto che produce un’alternativa. A meno che non ci si trovi in presenza di un improvviso vuoto di potere in un sistema caratterizzato da sovranità nazionale; due condizioni presentatesi in passato – tra le due guerre, in Europa, e ancora per vent’anni in seguito nel Terzo Mondo – ma inesistenti qui ed oggi. E comunque, anche in quegli scenari il voto fu solo una componente del cambiamento radicale, un effetto dell’organizzazione e dell’azione e non viceversa.
A monte prima che a valle.
Per incidere sul potere e sulla Polis esistono sempre e soltanto delle soluzioni precise, che elenco accademicamente senza alcun giudizio morale o politico.
L’insurrezione, la guerra civile, il colpo di Stato, la modifica di rapporti di forza tra i gruppi di pressione, la trasformazione culturale delle élites. Altre strade non ne esistono né esisteranno mai.
Chirurgia e strategia
Credo che a chi pensa che la casta dominante e la sua cultura siano da congedare, i tempi offrano la possibilità di un operato articolato, atto a modificare i rapporti di forza tra i gruppi di pressione e a realizzare la trasformazione culturale delle élites, ma solo mediante un imprescindibile ancoraggio solido con un movimentismo popolare sviluppato nel quotidiano. Il tutto per funzionare efficacemente, come un meccanismo oliato, necessita di una notevole gestione d’avanguardia.
Il voto, ragionando in quest’ottica e fuor da commedia, ha un valore relativo visto che, quand’anche dovesse apparire decisivo, ciò non avverrebbe che alla fine di un lungo percorso.
Nel frattempo esso può avere un valore tattico, quantitativo e quantificabile. Lo si può quindi concepire in modo strumentale più che di bandiera.
E’ per questo che lo considero sempre e solo con occhio chirurgico e che sorrido delle pretese di voti di bandiera che vorrebbero incidere in qualche modo ma che non servono ad altro che ad avvalorare la messinscena, il reality show in cui i presunti antagonisti si ritrovano puntualmente inchiodati, vanificando nella neutralizzazione imperativa in un ibrido che non è – né può essere – antagonismo concreto e non è neppure partecipazione, ogni loro potenziale.
Ritengo che questa mania – post anni settanta – d’intendere l’antagonismo come l’atteggiamento di chi si mette in vetrina provocante, come le puttane di Amsterdam, per essere gettonato dai passanti, e che, pur cercando di apparire osceno dandosi così un’immagine malandrina, resta invischiato nelle logiche fondanti del sistema imperante, sia il frutto di un distacco dal reale e di una fascinazione verso la politica-show.
Qualunque sia la scelta conta la mentalità
Per queste ragioni, e per altre connesse, ho definito alcune tendenze scaturite dall’antico radicalismo, di cui tra l’altro si sono spesso persi i significati e le radici, come espressioni di “destra terminale”. Non è ovviamente solo l’accettazione acritica e costante della commedia elettoralistica che caratterizza la destra terminale, perché questa tentazione è socialmente diffusa e accomuna molte tipologie diverse. Ma credo che si possa essere abbastanza lucidi dal comprendere che anche se ci si confronta con il meccanismo elettorale non per questo si deve per forza andare a votare quando ce lo chiedono né che si debba per forza rispondere a domande altrui.
In politica, come nella vita, conta più chi decide le domande, le scelte, le consultazioni, di chi le accetta. Se non si può decidere ci si può anche confrontare con chi lo fa, ma non come e quando vuole lui. Non quando il gioco è truccato e l’arbitro è avversario. Insomma sarà pure vero che il popolo vota più di quanto lotti, ma non mi sembra opportuno votare sempre e comunque, interrogandosi solo fugacemente sul valore del gesto.
Mi viene la tentazione forse un po’ gigionesca di ricorrere a Zarathustra: “Ripara da questi impulsivi nel rifugio della tua solitudine. Sul mercato soltanto ti obbligano a scegliere tra il SI ed il NO”.
Mi rendo però conto che la frase a ben altro si addice che non alla messinscena di domenica e di lunedì e che non vale proprio la pena di polemizzare sull’argomento. Io sono per l’astensione e altri, legittimamente, sono per qualche SI che rispetto; non è necessario seguire questo mio ragionamento e dunque più di una scelta nello specifico è accettabile, a patto che la mentalità a monte non sia sballata. Posto che l’esito referendario non conterà minimamente, questo è quel che mi preme e che temo non possa dirsi per tutti quelli che non si asterranno, ma varierà da caso a caso.