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Renzi vs Zingaretti continua

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La battaglia dentro il Pd

Non ho simpatia per Calenda. Dalle parti del Pd si dovrebbe essere vaccinati contro gli eccessi di ego e protagonismo. Ministro di peso nei governi Renzi e Gentiloni ora ci informa che spesso era in dissenso; si inscrive al Pd e un minuto dopo minaccia di restituire la tessera se non si fa come dice lui; da inscritto dà vita a un suo movimento (“siamo europei”) e, per conto di quel soggetto distinto, negozia  con il Pd il simbolo e suoi candidati; da capolista al parlamento Ue, dichiara di non escludere la sua futura iscrizione a un gruppo politico diverso da quello dei Socialisti e democratici, cioè ai liberali (Alde), dopo avere rifiutato la candidatura offertagli dalla Bonino, che fa riferimento appunto ai liberali; eletto alle europee, ventiquattrore dopo, avanza l’idea dare vita a un nuovo partito liberale di centro. Un disinvolto, inquieto movimentismo. E tuttavia la sua idea merita di essere considerata.

Zingaretti: 1) invoca elezioni; 2) sostiene che si sarebbe ripristinato un sano bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra imperniato sul Pd (e non più tra Lega e 5 stelle); 3) e che la strategia del suo Pd mira a organizzare un “campo largo” di centrosinistra. Tatticamente lo si può comprendere. Ma, al momento, da quel traguardo si è ancora molto lontani. Nell’ordine. Elezioni? Se davvero si precipitasse verso le urne, la prospettiva quasi certa sarebbe una facile, larga vittoria di una estrema destra nazionalista e un governo Salvini. Un affare per il Pd e soprattutto per il paese? Bipolarismo? Allo stato, ahimè, abbiamo un polo solo, di destra, forte e coeso, che si attesta intorno al 50%, con, a fronte, i 5 stelle allo sbando sotto il 20% e un Pd poco sopra, ma tuttora relativamente isolato (salvo + Europa al 3% e Sinistra italiana al 1,5%). Campo largo? In realtà campo piuttosto stretto ….

In questo quadro, l’ipotesi di Calenda, in verità né originale, né nuova, non è peregrina. Di recente, vari sondaggisti, interpellati al riguardo, hanno stimato tra l’8 e il 10% il potenziale elettorale di una formazione di centro di matrice liberale intestata a Renzi e Calenda. In regime proporzionale e non più maggioritario, differenziare e articolare l’offerta politica può produrre un saldo positivo. A sostegno di quell’idea militano buone ragioni: 1) nel declino berlusconiano, si può sperare che, del suo vasto ex bacino elettorale, residui una quota di elettori moderati che non intendono consegnarsi alla destra capeggiata da Salvini e comunque sarebbe bene non rassegarsi a rilasciargli il monopolio nella conquista di quell’intero bacino; 2) il Pd di Zingaretti potrebbe finalmente sciogliere il nodo irrisolto della sua identità politica (quella di un partito da sinistra di governo), un polo di attrazione per elettori rifluiti nell’astensionismo o verso i 5 stelle ma oggi delusi e smarriti, facendo i conti, sin qui elusi, con la torsione identitaria impressa al Pd dalla stagione renziana (Bersani ha efficacemente riassunto il dilemma identitario del PD: Sanchez, Macron o ….. Miccichè? L’allusione è alle intese con FI in alcuni Comuni siciliani); 3) sia il Pd che Renzi e i suoi sarebbero alleggeriti dal peso di una condizione da separati in casa che logora entrambi nella direzione di una civile separazione e ciò consentirebbe ad entrambi di dispiegare a pieno, senza logoranti contorsionismi, le rispettive, distinte potenzialità. Con la prospettiva, a valle, di un’alleanza tra soggetti distinti che, essa sì, allargherebbe il campo di un centro-sinistra plurale e inclusivo. Del resto, non è un mistero che Renzi era già di suo orientato in tal senso (un’ “altra strada” è il titolo eloquente del suo libro), ma che lo abbia bruciato sul tempo lo scatto di Calenda e che lo abbia trattenuto la misura del consenso a Zingaretti nelle primarie interne. Così come sono manifesti l’animus diciamo così malmostoso e l’azione interdittiva condotta dai renziani nell’attuale PD; 4) infine, il tabù del confronto con i 5 stelle (strenuamente osteggiato da Calenda e renziani), il cui travaglio interno rappresenta invece un’opportunità per un Pd non arroccato nel proprio ridotto. Ora lo sostengono anche osservatori come Paolo Mieli, a suo tempo contrario a ogni apertura. La portata della sfida a una destra oggi senza rivali che inquieta per qualità e quantità, nonché la identità altrettanto e più irrisolta dei 5 stelle (“non sappiamo chi siamo”, così Roberto Fico), insomma la logica e la politica dovrebbero spingere il Pd di Zingaretti a lavorare sulle contraddizioni interne ai 5 stelle, magari con l’obiettivo di dividerli lungo l’asse destra-sinistra, che essi, velleitariamente e opportunisticamente, immaginavano di esorcizzare.

Come si vede una strada lunga e difficile, dall’esito non scontato, che mal si concilia con la prospettiva di elezioni a breve. E tuttavia una strada che si deve imboccare se si vuole rimettere in moto un quadro politico che oggi vede Salvini dominus incontrastato.

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