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Si può fermare quest’immigrazione

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I fatti lo provano

I fatti accaduti in questa settimana con alterne fortune, da Treviso a Roma, ci fanno capire una cosa: che l’immigrazione non è il nostro destino. Che combatterla si può. Che per quanto culturalmente imbastardito e rimbambito, per quanto naturalmente incline al compromesso e alla transazione, in taluni casi il nostro popolo è disposto a reagire al suo suicidio programmato con molta meno acquiescenza di quanto non abbiano dimostrato altre nazioni.

Ovviamente il livello in cui si situano Quinto di Treviso e Casale San Nicola è il più basso su cui sia possibile combattere l’immigrazione. Essa si struttura a un primo livello sul piano delle grandi dinamiche geopolitiche e transnazionali. Il secondo è invece occupato dai gestori nazionali del fenomeno, tipo il governo italiano (che si rifiuta consapevolmente e criminalmente di operare nel livello precedente) e le varie ong, coop e cosche “solidali” varie.

E poi c’è appunto il livello dei territori, delle borgate, dei quartieri. Ed è curioso che in una società in cui ci si sciacqua continuamente la bocca con ciò che viene “dal basso” ed è “partecipato”, quando c’è veramente una rivolta dal basso tutti finiscano per giudicarla dall’alto. Ovviamente lottare nei quartieri significa spesso – quando si vince, cioè nel migliore e più raro dei casi – rimpallare il problema nel quartiere a fianco. Cosa che, nella nostra società sfaldata, purtroppo talora basta agli stessi animatori delle rivolte, che non sempre brillano per lungimiranza.

Ma i fenomeni popolari non vanno giudicati nella loro dimensione contingente, quanto nella dinamica che essi possono mettere in moto, senza peraltro lasciare spazio a illusioni su rivoluzioni imminenti e autenticità ritrovate, ché non è davvero il caso. Ma sono comunque segnali di vita. Di questi tempi non è poco.

 

 

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