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Siamo in apartheid

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Noi, esseri inferiori

L’altalena ha due posti. Sul primo c’è un bambino dell’asilo, sul secondo c’è un migrante della caserma. L’asilo con duecento bambini è dietro il muro giallo a sinistra, la caserma con quattrocento migranti è dietro il muro con il filo spinato a destra. L’area giochi è in mezzo.

Dicono le mamme che «i primi sono arrivati a luglio. Un pomeriggio abbiamo trovato il parco pieno. Finché andavano sull’altalena e giocavano a pallone, passi: in fondo non hanno niente da fare. Poi hanno cominciato a girare in bicicletta a tutta velocità, anche a sgommare, con il rischio di far male a qualcuno». «Poi – proseguono le mamme – hanno iniziato a lavarsi alla fontanella, a fare i loro bisogni dietro le piante, a bere e lasciare le bottiglie e i cartoni di vino per terra. Un giorno ne abbiamo trovato uno seduto sulla panchina che fotografava un bimbo con il cellulare; ci siamo avvicinate, ha posato il telefonino, ma la foto l’aveva fatta. Un’altra volta uno di loro ha preso in braccio un bambino. Certo è stato un gesto di tenerezza, forse ha pensato a un fratellino rimasto in Africa. Ma è stato allora che abbiamo mandato l’esposto al sindaco».

L’altra mattina alle 9 ha preso servizio il nonno vigilante. Giuseppe Fiorotto, 62 anni, metalmeccanico in pensione dopo una vita alla Aghito serramenti di Noventa Padovana: «Mia moglie lavora, i miei figli lavorano, io cosa faccio in casa tutto il giorno? Sono qui come volontario. Cerco di rendermi utile». Pettorina gialla, stemma di Padova sul cuore, il signor Fiorotto ha l’incarico di vietare l’ingresso ai cani e agli adulti non accompagnati da un minore di dodici anni. Se qualcuno trasgredisce deve pregarlo di uscire, se rifiuta deve chiamare i vigili. Il signor Fiorotto non incute particolare timore, è mite e pure balbuziente, ma i migranti preferiscono evitare storie e stamattina restano fuori dal cancello. «Ma sia chiaro che non sono profughi, non scappano dalla guerra. Non sono siriani; sono africani». Da dove vengono? «E che ne so io? Sono tutti neri. Chi li distingue?».

Le mamme padovane sono angosciate all’idea di passare per razziste almeno quanto lo sono per i loro figli. Oggi poi sono arrabbiate con il signor Vincenzo del Caffè letterario del Pedrocchi, che tiene spettacoli qui nel giardino e a un giornale locale ha dichiarato: «Le madri ci hanno chiesto se siamo accompagnatori dei profughi, sono preoccupate perché i ragazzi di colore giocano a pallone. Questa gente ha conservato la paura ancestrale dell’uomo nero, non merita risposta». Una mamma spagnola è furibonda: «Io sono straniera e non ho nessuna paura ancestrale, ma ho un figlio di cinque anni, ne aspetto un altro, e voglio crescerli in sicurezza. All’asilo ci sono bambini neri, nessuno giudica nessuno per il colore della pelle, ma non è così che si organizza l’immigrazione; non ammassando centinaia di persone in centro città, a un chilometro da piazza delle Erbe. La Spagna ha due città in Marocco, Ceuta e Melilla, ma non entra chiunque. Perché non fa così anche l’Italia?».

A mezzogiorno il signor Fiorotto smonta e il cancello rimane incustodito. Il suo collega prenderà servizio tra tre ore. I migranti si affacciano. Esitano. Qualcuno entra, come per segnare il territorio, e subito esce. Un ragazzo nigeriano spiega in inglese che domenica scorsa hanno convissuto con i bambini liberamente, metà parco agli africani metà ai padovani, sull’altalena un po’ per uno, e non è successo niente. Domenica prossima la sorveglianza non ci sarà, e si potrà riprovare. I compagni lo redarguiscono: meglio non parlare con gli italiani. Altri dicono in un sussurro di essere ghanesi e scappano via in mountain bike, le cuffiette nelle orecchie. Portano giubbotti pesanti e berretti di lana: in caserma, sotto le tende bianche, fa già fresco. Suonano al cancello, un custode controlla chi ha diritto di entrare. Fuori due poliziotti in Panda.

La signora Marta ha due figli, uno all’asilo l’altro alle elementari Carraresi, sempre qui dietro. «A me dispiace se ora non li fanno più entrare, i neri. Ma non possono lasciarli così, a ciondolare tutto il giorno, a bighellonare abbandonati a se stessi. Sono tanti, tutti giovani, tutti maschi, nessuno parla una parola di italiano: è normale avere paura, voler mettere una distanza tra noi e loro. Forse anche loro hanno paura, sono ragazzi arrivati in un mondo e in una città sconosciuti, chissà quanto hanno sofferto, chissà cosa si portano dentro. Molti di sicuro sono brave persone, ma qualcuno ha subito traumi, chissà come potrà reagire, se in modo normale o in modo violento. Accogliere vuol dire integrare. Diamo loro la possibilità di lavorare, di imparare la lingua. L’opposto di quel che stiamo facendo».

Padova è una città che conosce la paura da tempo. Titoli della cronaca locale di una giornata qualsiasi: «Trova i ladri in casa, picchiato e derubato»; «Raid dei malviventi alla fornace Morandi, sottratti 1.200 euro»; «Prato della Valle, le strappa il collier mentre viaggia sul bus»; «Doppio furto al centro commerciale Giotto, rubati gli incassi della farmacia e della libreria»; «Due auto scassinate, spariti tablet e carte di credito»; «Quattro ladri bloccati alla Rinascente»; «Non c’è nulla da rubare, danno fuoco all’azienda. La rabbia dell’agricoltore Mauro Varotto: “È la sesta volta, mi hanno distrutto tutto, ora smetto”». Certo non è solo colpa degli stranieri, che però a volte diventano manovalanza per lo spaccio e altri traffici. Il muro di via Anelli lo costruì il sindaco ex comunista Flavio Zanonato, guadagnandosi la fama di duro. Sulla paura il sindaco leghista Massimo Bitonci ha costruito la vittoria elettorale. È diventato un idolo del web da quando ha vietato schiamazzi e lanci di uova alle feste di laurea; gli studenti l’hanno ripagato con una campagna virale, il sindaco è stato invitato ad abolire pure il gelato per strada, il passaggio degli scout, le ferie in Croazia, le uscite sul balcone in mutande e le farfalline del geranio. Nell’attesa Bitonci ha abolito i mediatori culturali: che i migranti imparino l’italiano da soli, se proprio ci tengono.

Enrica ha una figlia di sei anni: «L’altro giorno nel parco giochi abbiamo visto per la prima volta uno spacciatore in azione. Non era un migrante appena arrivato, si muoveva sicuro, ma era comunque uno di loro. È un segnale di degrado grave, perché non vogliamo che questo quartiere diventi come i giardini dell’arena romana dove vai a ricomprarti le biciclette rubate, come la zona della stazione, dove non puoi fare due passi senza che ti offrano droga, dove l’ultima volta ho visto un ragazzo con la faccia insanguinata scappare da un altro che lo inseguiva con una bottiglia rotta in mano. Basta una scena così a segnare un bambino nel profondo. E noi non vogliamo vivere in una città dove succedono scene così. Dobbiamo separare gli spazi. Evi tare ai nostri figli la promiscuità con gli stranieri adulti».

Nel frattempo è arrivato il nonno vigilante del pomeriggio: Giorgio Maron, 65 anni, pensionato della Diva di Villarosa di Camposanpiero, modellazioni tridimensionali. Dice che «l’ordinanza non è contro i neri; altrimenti mi rifiuterei di farla rispettare. Se arriva una famiglia di africani io li faccio entrare; basta che abbiano con sé un bambino. Se arriva uno straniero anziano, anche lui ha diritto di sedersi sulle panchine, anche sull’altalena se vuole. Ma gli adulti da soli, no». «Tanto – aggiunge Enrica – loro sono tutti adulti e tutti soli».

A dire il vero c’è anche qualche donna. Un gruppo si è radunato in un altro giardino, sulle mura del Cinquecento, ma anche qui si aprirà presto un altro fronte: i tecnici stanno iniziando i lavori per bonificare ed eliminare l’edera e altri rampicanti. Qui non possono stare a lungo, tra poco farà freddo, in teoria dovrebbero già essere in un’altra caserma fuori Padova, a Bagnoli, ma il sindaco Roberto Milan nel frattempo l’ha comprata dal demanio e ha ritardato il trasferimento. I migranti aspettano. Marta li guarda impietosita: «Io mi sento quasi in colpa, li facessero entrare ma sorvegliandoli, li coinvolgessero, magari ne scegliamo tre che amano i bambini, potrebbero vigilare loro sul parco insieme con i nonni…». Le altre mamme la guardano perplesse, forse non è il caso: «Quando eravamo piccole noi, trent’anni fa, a Padova stranieri non ce n’erano. Ora sembra che ci siano soltanto loro. Nessuna comunità può reggere a un cambiamento così grande e in così poco tempo. Adesso è cominciata l’emergenza migranti. Stanno gonfiando una bolla destinata a scoppiare. E allora cosa succederà?». Sono le 18, il signor Maron ha finito il suo turno, le mamme tornano a casa a preparare la cena. Il parco chiude alle 19 e 30. I neri si riaffacciano. L’altalena è libera. 

 

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