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Un articolo a dir poco patetico cerca di presentarci Sharon & compagnia come coraggiosi, come uomini che hanno preso una decisione storica e sofferta. Ne riparliamo l’anno venturo e vediamo quanti metri avranno liberato…

Non ha voluto parlare con nessuno. Quel che aveva da dire, il primo ministro Ariel Sharon l’aveva già detto, nell’accorato discorso di lunedì. Dal prossimo anno, non ci saranno più ebrei nella Striscia di Gaza. Da generale, che ha ormai preso la sua decisione, ritenendola la più giusta pur sapendo che sarebbe stata lacerante, Sharon ha atteso imperturbabile che il rito di un voto tra i più importanti dell’intera storia di Israele si consumasse. Soltanto un piccolo tic nervoso, quel tormentare insistentemente la cravatta azzurra, segnalava la tensione dello storico momento, dopo 17 ore di un dibattito parlamentare che uno dei più stretti collaboratori del premier ha definito «un autentico dramma». Un dramma che si è consumato nel Likud, il partito di Sharon, e ha fatto affiorare, assieme all’opposizione al piano di smantellare tutti gli insediamenti della Striscia di Gaza, risentimenti ed egoismi, come quello del ministro Benjamin Netanyahu, che ieri sera ha visto sfumare la possibilità di un rapido ritorno al vertice del potere.
Netanyahu sapeva che avrebbe dovuto votare a favore, seppur contro coscienza, essendo lui il vero referente governativo dei coloni. Anche perché, se avesse votato contro, avrebbe nuociuto all’immagine rassicurante che ha cercato di ricostruire in tutti questi anni. Tanto, pareva convinto che, alla fine, una mossa del leader gli sarebbe stata fatale.
Sharon l’osservava in silenzio, pienamente consapevole che nulla, ma proprio nulla, avrebbe potuto costringerlo a tornare indietro: a costo di frantumare il suo partito, di cambiare alleanze, di subire nuove minacce. La scelta aveva un prezzo altissimo, e il premier ha deciso di pagarlo, recuperando un prestigio che soltanto alcuni anni fa era impensabile. Lui, che fu accusato di favoreggiamento per la strage di Sabra e Chatila; lui, che aveva predicato e sostenuto la politica degli insediamenti, ha deciso che il bene supremo del Paese imponeva una brusca virata. Quando, lunedì, ha accusato numerosi coloni d’essere vittime di un «complesso messianico», non ha fatto altro che citare uno dei grandi leader conservatori del passato, quel Menachem Begin che ebbe il coraggio, assieme all’egiziano Sadat, di firmare la pace di Camp David e di smantellare tutti gli insediamenti nel Sinai.
Sono cambiati i tempi, ma la storia ritorna. E in questo momento Sharon si sente probabilmente come il suo vecchio maestro. Nel momento che richiedeva coraggio, il generale lo ha dimostrato. Il voto di ieri non risolve il problema israeliano-palestinese, forse non basterà neppure per riavviarlo in maniera convincente. Ma quanto è accaduto ha rotto uno dei tabù che sembravano impossibili da cancellare.
Ora Netanyahu lancia l’ultimatum: quello di un referendum, altrimenti entro due settimane si ritirerà dal governo. Ma Sharon non ha alcuna intenzione di cedere. Da ieri, la sua popolarità è in decisa ascesa. È uscito dalla Knesset convinto di aver fatto, da soldato, il suo dovere.


Antonio Ferrari



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