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Un futuro senza volto

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Sappiamo chi comanda a Tripoli, non sappiamo chi comanda a Bengasi

Bernardo Valli, su Repubblica, racconta che i ribelli della Cirenaica non fanno prigionieri. E’ un dettaglio che porta all’attenzione il carattere feroce di ogni guerra civile, quale sempre più si rivela essere quella libica. E’ però una guerra civile dotata di una curiosa asimmetria: sappiamo chi comanda a Tripoli, non sappiamo chi comanda a Bengasi. A oltre un mese dall’inizio della rivolta contro Gheddafi, nessuno è ancora in grado di dire – a parte la caduta del raìs – quale sia il programma del “consiglio nazionale di transizione”. Bernard-Henri Lévy (nella foto), che dovrebbe conoscerli meglio di altri, visto che li ha presentati all’Eliseo e ha ottenuto addirittura che la Francia – unico paese al mondo – li riconoscesse, cerca (Corriere della Sera) di rassicurare sulle loro intenzioni. Lo fa però con sommo sprezzo del ridicolo, formulando una frase come questa: “Forse, ci sono tra loro persino antisionisti, magari antisemiti mascherati da antisionisti (sebbene, in nessuno degli incontri avuti a Bengasi e poi a Parigi, con nessuno dei loro dirigenti, abbia mai omesso di dire chi sono e in che cosa credo)”. Ci fa sapere, insomma, che cosa ha detto lui, non che cosa hanno detto loro. Per il resto, si dichiara “sicuro che questi combattenti, che hanno imparato (…) cosa voglia dire libertà e in quale lingua dello spirito si scriva tale parola, saranno sempre meglio di un dittatore psicopatico…”. Meglio? Forse sì, ma forse no. Finora non esistono elementi per rispondere affermativamente. Ed evocare la “lingua dello spirito” non sembra proprio un argomento decisivo.Il bello delle guerre “umanitarie” – concetto ambiguo in sommo grado, inteso a sovvertire, nelle relazioni internazionali, secolari tradizioni di Realpolitik e di non ingerenza in casa d’altri – è che si prestano a ogni sorta di incoffessabili obiettivi. In questo caso, la vittoria di una parte contro l’altra nella guerra civile libica, risultato non contemplato dalla famosa risoluzione 1973 dell’Onu, ma apertamente invocato dal vieux philosophe: “Qual è lo scopo di questa guerra? Di proteggere, davvero, soltanto, i civili di Misurata, Zawia, Bengasi? (…) Credo di no. Spero di no”. E pazienza se, per ottenere la caduta di Gheddafi, si fanno piovere dal cielo centinaia di bombe umanitarie sul suo paese. E si arriva perfino a immaginare una “Lega araba presente, fin dall’inizio, nel cuore di questo movimento di solidarietà mondiale”, salvo accorgersi, a guerra iniziata, che quella Lega, per bocca del suo leader Amr Moussa (il quale, tra qualche mese, potrebbe diventare il presidente dell’Egitto), si è affrettata a condannare l’intervento militare.Resta il fatto che il cosiddetto diritto di ingerenza umanitario, teorizzato da un ventennio soprattutto dall’intellighenzia francese, è ormai diventato un potente fattore politico e culturale nell’orientamento dell’opinione pubblica occidentale. Fattore da maneggiare con estrema cautela, ignota finora ai suoi campioni d’oltralpe. Può essere infatti – minacciato o esercitato – uno strumento al servizio della comunità internazionale per evitare chiare catastrofi e per attuare pressioni in situazioni estreme su regimi politici fuori controllo. L’interpretazione “restrittiva” della risoluzione 1973 (evitare massacri a Bengasi) potrebbe ancora essere ricondotta in questo alveo virtuoso, se sottratta all’iniziativa dei più entusiasti e seguita a breve da iniziative diplomatiche. Ma quel diritto può diventare anche un’arma formidabile di destabilizzazione, se impugnato (come periodicamente e velleitariamente avviene) contro le altre grandi potenze mondiali e contro i loro interessi. Oppure, come nel caso libico, per far trionfare gli interessi unilaterali di una parte dei belligeranti.

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