Anche la progressista San Francisco ora scaccia gli immigrati
If you go to San Francisco”, se vai a San Francisco, metti un fiore tra i capelli, cantavano i Mamas and Papas nel 1967, ma se ci vai adesso portati da mangiare e non ti illudere di trovare un lavoro. La città dei fiori e degli hippy, dell’amore universale e dei poeti maledetti, delle cucine e dei supermercati per distribuire il cibo gratis, non ha più un dollaro da regalare e alza il ponte levatoio del lavoro contro i non residenti.
Il sindaco non vi vuole. Dal giorno della vigilia di Natale, quando il democraticissimo sindaco Gary Newsom ha rifiutato di porre il veto a una delibera restrittiva del consiglio comunale della città geograficamente e politicamente più a sinistra degli Stati Uniti, per chi non è residente trovare un impiego è diventato durissimo: il 50% di tutti gli appalti pubblici, di tutti i posti di lavoro legati direttamente o indirettamente alla borsa del Comune, dovranno d’ora in poi essere riservati ai residenti che pagano le tasse locali, sia le addizionali sul reddito, sia l’Ici, l’imposta immobiliare qui specialmente salata. Fino all’antivigilia di Natale la quota era soltanto il 20%. San Francisco, il “villaggio medioevale che biancheggia nell’alba contro l’oceano” che incantava John Steinbeck, ha alzato il ponte levatoio.
San Francisco non è la prima città americana ad arrendersi alla spietata legge di un’economia che sta drenando le risorse degli Stati, delle contee – le nostre province – e delle città, nelle quali i contribuenti esigono che sempre maggiori fette della fiscalità tornino a loro. Dalla capitale Washington, dove il personale della polizia metropolitana e degli uffici pubblici ha l’obbligo di residenza nella città o nei suoi sobborghi satellite, a Denver, nel Colorado, dove è in vigore la “Dura”, come si chiama per caso la dura norma sulla ricostruzione urbana riservata agli abitanti e ai residenti legali, sistemi di quote e preferenze localistiche stanno diffondendosi in una nazione che si vanta di non discriminare fra razze, generi, religioni, status legale o preferenze sessuali (come precisa l’ancora apertissima New York). Ma che al momento di distribuire le sempre più magre risorse pubbliche deve tornare a chiedere i documenti.
Per lo spirito della California, la sua storia, la sua stessa composizione demografica di Stato che ha alla guida un austriaco immigrato, Arnold Schwarzenegger, e vede il 43% della popolazione parlare a casa propria una lingua diversa dall’inglese, ogni meccan ismo discriminatorio è un altro passo di allontanamento dalla propria natura. Ma San Francisco, da più di un secolo la “costa dei barbari”, degli spiriti liberi, dei poeti maledetti, dei figli del mondo e dei fiori, la comunità dove tutto è possibile e tutto è permesso, era vista come l’ultima roccaforte di un’utopia che aveva avuto il suo zenith nell’estate dell’amore 1967 e conosciuto il suo terribile nadir all’inizio degli anni ’80, quando l’Aids devasto la comunità gay di Castro. La resa del “Board of Supervisors” – il potentissimo consiglio comunale che funziona anche da corpo legislativo del quale fece parte il celebrato Harvey Milk, il primo politico apertamente gay poi assassinato – alla realtà della finanza, è dunque specialmente dolorosa.
Il sindaco Newsom, salito al potere con il 72% dei voti, ha grandi ambizioni politiche, e dopo essere stato già eletto anche vice governatore nel novembre scorso, immagina possibili orizzonti futuri alla guida dello Stato intero. Ma la California, già motore dei successi e della crescita americana soprattutto negli dell’illusoria “new economy” nella valle dei computer e di internet, chiuderà il 2010 con 26 miliardi di dollari di disavanzo pubblico. E la falce degli amministratori pubblici sta calando su scuole, servizi pubblici, assistenza, sanità. La zattera alla quale si aggrappano sindaci, amministratori di contea, assessori sono i fondi per la ricostruzione venuti da Washington, nel “Reconstruction Act” del 2009 con i suoi quasi 800 miliardi, e negli stanziamenti locali quasi sempre a credito, finanziati con obbligazioni che i contribuenti dovranno ripagare. Dunque, chi non risiede e non paga le tasse, non avrà diritto a salire sulla zattera. E per essere residente non si può essere “senza documenti”. Sono quindi i clandestini i primi a essere escl usi.
“E’ stato difficile, ma ho dovuto farlo”, si è inchinato mestamente il sindaco respingendo le invocazioni di chi gli chiedeva di mettere il veto – in verità pochi perché l’autarchia del lavoro ha avuto l’approvazione di 8 consiglieri su 11 e i supervisors sono oggi espressione dei quartiere della città, non più dei residenti in generale. Il presidente del board è infatti un cinese, Chiu, figlio di immigrati taiwanesi, dunque espressione della etnia più forte, ancora imperniata, ma non più limitata, nella Chinatown.
Fino a quando il morso della recessione non si sarà allentato e il mercato immobiliare, motore primo della finanza locale attraverso l’Ici, non ripartirà, i buoni sentimenti, la tradizione, il ricordo di “San Francisco Città Aperta” continueranno ad appassire come i fiori tra i capelli dei vecchi ragazzi del ’67. San Francisco è chiusa per restauri e si culla in un’altra illusione, quella del localismo redentore. In altre città ancora più inguaiate, come Cleveland e Cincinnati, le metropoli degli altiforni freddi sui Grandi Laghi, le quote riservate ai residenti esistono da anni. Ma non si trovano mai abbastanza residenti per fare gli spiacevoli e mal pagati lavori che a loro sarebbero riservati. Non basta riservare un posto a tavola, se poi nessuno si presenta.