“Una mia amica era incinta e continuava a pippare. ‘Sei matta, non ci pensi al bambino?’ domandavo. Rispondeva: ‘Tranquilla. Al massimo esce più piccolo’. Quando ho saputo di aspettare la mia Ale, ho smesso. Ha nove mesi. Dico, giurano, che è nata sanissima. Però ho usato cocaina per cinque anni… Ogni dieci minuti, specie la notte, la ispeziono. La visito, proprio come fossi un medico. Ho paura di trovare arti spostati, gli occhi che non si aprono, i riflessi spenti. Una ossessione. Io ho 29 anni” .
“Mi guardi. Si vede che, insomma, vivo bene, una vita di un certo livello. Mi ci vede a finire dai marocchini in stazione Centrale a cercare l’eroina? Ci andavo ogni sera. Avevo schifo. E le parla uno che è ingegnere, ha cinquant’anni, ha passato una vita a costruire di tutto in Africa, conosce gente di livello, mia sorella, per dirle, lavora a… e io giravo a comprare l’eroina”.
La mamma di Ale è una, l’ingegnere è un altro, e siamo appena a due. L’altra mattina, al Sert di via Conca del Naviglio, il Centro servizi per le tossicodipendenze che serve il centro città, a ritirare il metadone sono passati in novanta. In cinque ore. Dalle 7.30 alle 12.30. Il Sert, che a Milano qualcheduno del Comune vorrebbe chiudere, ancora si porta dietro il ricordo e le immagini dei decenni passati. Code di scheletri spolpati dall’eroina; chi sveniva, chi vomitava, chi cadeva a terra e ci rimaneva.
Nel primo semestre dell’anno il Sert ha seguito 3.466 persone. Si sono visti un marito e una giornalista che si bombardavano di coca per ritrovare l’intesa sessuale. ネ transitato un tipo comparso nelle televendite. Si è fermato un anestesista che ogni giorno ha in mano i destini di tanti di noi (l’ospedale è tra i più importanti). E si sono moltiplicati i distinti signori che, invitati ad andare in bagno per il prelievo dell’urina, dalla tasca della giacca hanno tirato fuori un campione di pipì di un amico. Per camuffare l’alta concentrazione di droga. A riprenderli, la telecamera interna alla toilette. Lo sanno che esiste, ci mancherebbe, vengono avvisati, è per la legge sulla privacy. La telecamera l’hanno messa per evitare che si imbrogli.
Il Sert, diretto dalla dottoressa Paola Sacchi, cura malati, e ci tiene che in giro si sappia. Non è un angolo buio di reietti; piuttosto, è uno dei salotti di Milano. Dentro, si affollano gli invitati, insospettabili prigionieri di un male che la città ha diagnosticato eppure trascurato. Per vergogna o per superbia.
Riccardo Gatti studia la tossicodipendenza da sempre. ネ stato a New York nel biennio ’89-’90: la droga invadeva le classi agiate. “Qui l’invasione – dice – è già iniziata. Quasi nessuno sembra volersene accorgere. Anzi, chi denuncia questi problemi dà fastidio. Noi proviamo a leggere cosa avverrà in futuro. Incrociamo i dati, studiamo. Sta tornando l’eroina. Cresceranno i consumatori. Si abbasserà l’età media. Mi chiede se ci sarà una presa di coscienza? Non lo so. Mi domanda se devono scapparci i morti? Ma se si muore ogni giorno! Quanti giovanissimi sono colpiti da infarto?”.
Un 17enne di un liceo scientifico del centro è stato beccato dalla polizia che comprava cocaina. ネ finito al Sert. Ha confidato alla dottoressa che l’ha seguito: “Questa vicenda è stata un’occasione. Mamma e papà si sono accorti di me. Sono finalmente riuscito a spiegare loro perché da bambino avevo rifiutato quel corso sportivo che insistevano a farmi frequentare”.
Al Sert, il grosso dei pazienti ha tra i 35 e i 40 anni; poi vengono i trentenni e i ragazzini. Cocaina, hashish, acidi, pasticche, e l’eroina, inalata o fumata.
L’ingegnere che emigrava in stazione Centrale dice: “Avevo dolori muscolari cronici. Il medico mi prescrive un farmaco. Divento dipendente. Fin quando esce dal mercato. Cerco sostituti. Non funzionano. Provo l’eroina. Funziona. E allora continuo. Non mi crede?”.
La mamma della piccola Ale è figlia di un imprenditore (marchio noto); i suoi divorziarono, lei andò a vivere da sola; posto in banca, noia, voglia di cambiare, e così discoteche e locali (i soliti noti nomi) per fare la ballerina e la barista. “Al bancone mi pagavano un cocktail direttamente con una dose”.
In certe feste, a casa sua, “giravano i vassoi, quelli delle tartine, pieni di strisce di polvere. Ho iniziato perché volevo provare. Tanto smetto appena voglio, mi dicevo. Ho avuto amici che per la coca hanno venduto tutto: uno aveva una villa spaziale non lontano da quella di Jovanotti e ora fa il barbone. Vivevo per la coca, pensavo alla coca. Io e le mie amiche. Due, brasiliane, alle feste si prostituivano, servivano soldi. Affittavo una delle mie stanze, in salotto si ballava, di là si faceva sesso. Un’altra amica era incinta. Le è morto il bambino e se l’è tenuto dentro per una settimana. Non voleva andare in ospedale. Aveva paura che la ricoverassero insieme ai tossici. Io sono stata una tossica. Sono finita in comunità. Ho bisogno di un lavoro. Ti lascio il curriculum, posso? Guarda che faccio anche le pulizie”.