martedì 15 Ottobre 2024

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Google ci spia. Traccia e registra i nostri movimenti sulla rete. Vede quello che cerchiamo, vede quello che leggiamo o guardiamo. Sa dove siamo. Conosce i nostri interessi, anche quelli che vogliamo tenere nascosti. Controlla il contenuto e i destinatari delle nostre email. Pochi lo sanno, qualcuno lo sospetta, quasi tutti lo ignorano, ma è proprio così. Ci spia. E poi ci scheda, conservando la mole di informazioni che ci riguardano in un database per un anno e mezzo. Otto italiani su dieci che usano Internet sono finiti nei database di Google. Più riesce a conoscerci, più specifica, corrispondente ai nostri gusti e quindi efficace sarà la pubblicità che ci farà trovare sui siti che visitiamo. Per i cervelloni del marketing è semplicemente behavioral advertising, pubblicità personalizzata. I difensori della privacy, invece, usano un termine più sinistro: profiling. Profilazione degli utenti. Ormai lo fanno quasi tutti i più grossi operatori del web. Ma nessuno in maniera capillare quanto il gigante di Mountain View. Ma quante informazioni riesce a raccogliere il colosso della rete?
LE MANI SULLA RETE
Secondo una ricerca dell’Università californiana di Berkeley, Google Inc (23,6 miliardi di dollari di fatturato nel 2009) è in grado di controllare e tracciare i movimenti di chi usa Internet sul 88,4 per cento della rete. Direttamente, attraverso i suoi siti cult, come il motore di ricerca, il servizio di posta elettronica (gmail. com), Youtube, Google Maps, Picasa. Ma anche indirettamente, grazie a quei software gratuiti usati da milioni di bloggers, gestori di siti e aziende. Ad esempio Google Analytics – l’applicazione che permette di conteggiare il traffico di un portale – o AdSense, il servizio di inserzioni pubblicitarie. Risultato: il database di Google è il più vasto oggi esistente, e anche quello che contiene il maggior numero di informazioni su un utente unico.
E’ oggettivamente difficile navigare senza finire mai in quello che per tanti è semplicemente un colorato motore di ricerca, veloce, intuitivo e dal motto rassicurante “non essere cattivo”. Lo slogan fu scelto personalmente dai due fondatori, gli ex studenti universitari di Stanford Sergey Brin e Larry Page, e forse è da aggiornare, vista l’aggressiva “politica di annessione” avviata dai suoi manager. Google Inc acquista società, aumenta i servizi, si sta proponendo in pratica come lo sportello unico per i nostri bisogni online. E ora è anche sui telefonini. Con Admobile sta invadendo il settore delle applicazioni pubblicitarie per cellulari. Android, il suo sistema operativo che consente l’accesso veloce a Internet, è utilizzato su un telefonino su tre negli Stati Uniti. Ma i soldi Google Inc li fa sempre nello stesso modo: vendendo pubblicità.
SEMPRE INTERCETTATI
Repubblica ha assistito in diretta alla “profilazione”, grazie a Matteo Flora, esperto di sicurezza su internet a capo di TheFool, una società che offre servizi anti-schedatura. Abbiamo navigato per 10 minuti come farebbe un qualsiasi utente: abbiamo visitato il sito di Repubblica, abbiamo letto un articolo che parlava di Berlusconi, poi la notizia del passaggio di Mourinho al Real Madrid, siamo passati su un sito di vendita di automobili, abbiamo visto un’intervista al regista James Cameron, poi abbiamo controllato il nostro conto in banca e spedito un messaggio a un amico su Facebook. Su un altro computer – dotato di un software in grado di fare il profiling – abbiamo potuto vedere con gli occhi di Google. Risultato: al numero 4344222, identificativo del browser (il software di navigazione, in questo caso Explorer), era associato il nostro nome e cognome, carpito al momento dell’accesso a Facebook. Poi una lista di parole: Berlusconi, Repubblica, sinistra, politica, opposizione, Bersani, banca (e il nome del nostro istituto), Inter, Mourinho, Real Madrid, calcio, sport, film, cinema, Avatar, 3d, Cameron, avventura, automobile (e l’indicazione di un modello specifico da noi più volte cliccato), utilitaria, usato. Classificate per importanza.
“Google personalizza gli annunci in base ai nostri reali interessi – spiega Matteo Flora – ecco quindi che la pubblicità non è più una scocciatura, ma diventa persino utile. E remunerativa per chi te la propone. Per cui un utente che naviga abitualmente su siti di automobili, si troverà sparsi ovunque annunci di vendita di auto, anche su portali che non c’entrano niente con quel settore”. Tecnicamente quindi Google è una mega concessionaria di pubblicità che è riuscita a risolvere una volta per tutte l’antico problema del target, quello su cui generazioni di venditori hanno sbattuto la testa. Tutto a discapito però della nostra privacy.
“E’ il prezzo che paghiamo per i costosi prodotti che Google distribuisce gratuitamente – spiega ancora Flora – con la navigazione di fatto offriamo inconsapevolmente dati personali e dati sensibili riguardanti, ad esempio, l’orientamento sessuale, la salute, la religione che nemmeno i servizi segreti più intrusivi potrebbero avere”. Come se fossimo tutti intercettati, 24 ore su 24.
LA DIFESA
L’azienda di Mountain View, la società con la migliore reputazione al mondo secondo la rivista americana Forbes, non ci sta a essere considerata la versione finora più compiuta del Grande Fratello orwelliano. “Noi non spiamo nessuno – dice Marco Pancini, European Senior Counsellor di Google – è vero che registriamo la navigazione degli utenti per creare un elenco personalizzato di categorie di interesse, ma tutto avviene in maniera anonima. I profili sono associati a un codice numerico, mai a un nome e un cognome, come indichiamo nella sezione “privacy” del nostro sito. Volendo poi si può decidere di disattivare il tracciamento, facendo il cosiddetto opt-out. E ci sono software scaricabili che bloccano la profilazione”. Tutto ciò però rimane a carico dell’utente, e chi non è esperto difficilmente si cimenta in queste operazioni. Google inoltre non chiede mai esplicitamente il consenso alla raccolta e al trattamento dei dati. Lo fa e basta. Altro punto debole: la certezza dell’anonimato. Come abbiamo documentato durante la dimostrazione di Flora, scoprire l’identità di qualcuno che durante la navigazione accede al proprio account di posta elettronica o di Facebook è molto semplice. “La nostra azienda controlla che i profili rimangano anonimi, separati dagli account registrati. Non facciamo mai l’incrocio dei dati”, risponde Pancini. Ma chi controlla i controllori?
I DUBBI DEI GARANTI
Sul web è esploso il business del tracciamento. I database diventano merce preziosa per chi opera in un settore – quello della pubblicità online – che muove 23 miliardi di dollari all’anno. Un’inchiesta del Wall Street Journal dimostra che navigando sui 50 siti più popolari negli Stati Uniti, ci si ritrova con il computer infestato da 3.180 files specifici per la profilazione. Cookies, FlashCookies e i neonati Beacon: software invisibili capaci in alcuni casi di stilare l’età, il sesso, il codice postale, il reddito, lo stato civile, le condizioni di salute dell’utilizzatore. Spie digitali usate soprattutto da Google, Microsoft e QuantCast Corporation, ma anche da una miriade di piccole aziende che hanno fiutato l’affare e si sono specializzate nella raccolta e nella vendita all’ingrosso dei nostri segreti, in stock da 50-100 mila profili. Un mercato che frutta miliardi di dollari.
Proprio per il timore di rimanere indietro in questa corsa, Google Inc avrebbe potenziato la profilazione dei suoi utenti, come pare dimostrare un documento riservato di sette pagine del 2008 – pubblicato sempre dal quotidiano americano – dal quale si deducono i dubbi dell’azienda e le proposte per rimodulare le strategie nel settore della pubblicità.
Non è un caso quindi che un rapporto di Privacy International, l’organizzazione no profit inglese che si occupa di monitorare gli attacchi alla privacy lanciati da governi e aziende, metteva già nel 2007 Google al primo posto della classifica dei “cattivi di Internet”. “Non chiede l’autorizzazione al trattamento dei dati, ha accesso a informazioni personali che vanno oltre il traffico online, come hobby, impieghi lavorativi, numeri di telefono. Raccoglie i report delle ricerche fatte attraverso la sua Toolbar senza specificare per quanto li conserverà”, scriveva tre anni fa. Google non ha mai smentito quel rapporto.
Le autorità internazionali stanno prendendo coscienza del problema. Negli Stati Uniti la Commissione Federale per il Commercio propone di obbligare i progettisti di browser a inserire meccanismi di bloccaggio del tracciamento. Semplici, intuitivi e facili da attivare. In Canada e in Australia le commissioni parlamentari per la privacy hanno avviato indagini su Google. In Germania il governo sta valutando se proibire Analytics, usato dal 13 per cento dei domini tedeschi.
Google utilizza le informazioni sugli utenti solo a scopi promozionali, ma cosa succederebbe se finissero nelle mani sbagliate? Magari in quelle poco pulite di servizi segreti deviati? O in quelle di un’azienda concorrente alla nostra, in grado di corrompere un funzionario o un semplice dipendente di Google?
LE RELAZIONI PERICOLOSE
La letteratura, in merito, è piuttosto confusa e piena di storie e retroscena che finiscono per smarrirsi in quel terreno ambiguo che confina quasi sempre con il mondo torbido degli 007 e degli scandali diplomatici. Il caso di uso distorto di questi dati pare essere quello che ha portato all’uscita temporanea di Google dal mercato cinese (dopo che gli hacker governativi erano riusciti ad impossessarsi di una grossa quantità di informazioni sui dissidenti). Ma un esempio ancora migliore lo si ricava analizzando il caso americano.
Google “is in bed with the Cia”, ovvero “va a letto” con la Cia, dichiarò l’ex spia Robert David Steele nel 2006, allarmando la comunità di Internet. Steele aveva appena abbandonato l’incarico di reclutatore clandestino proprio per conto della Cia. Accusava e accusa ancora oggi Google di condividere informazioni private con i servizi segreti americani. Steele fa anche un nome: Rick Steinheiser, responsabile dell’ufficio ricerche e sviluppo di Google. Sarebbe lui l’uomo di collegamento con i servizi. Un rapporto, secondo quanto ricostruito da Steele, nato nel 1998. Google era appena nata e in difficoltà economica, in quel momento avrebbe ricevuto finanziamenti dalla Cia. Gli intrecci però non finiscono qui. Nel 2004 Rob Painter, direttore del reparto tecnologie di In-Q-Tel, un’azienda che sviluppa tecnologie per conto della Cia, è diventato a sorpresa Senior Federal Manager di Google.
“Ci spia tutti – ribadisce Steele raggiunto da Repubblica – nonostante la buona reputazione che ha presso l’opinione pubblica. Purtroppo non troverete nessun altro che parli di questo. Tutto quello che avrete sono domande senza risposta”. E domande, scorrendo la storia commerciale del colosso californiano, ne vengono parecchie. Perché Google ha venduto di recente alcuni server alla Cia e alla National Security Agency? E perché ha fornito ai servizi segreti americani “Intellipedia”, un software che permette di gestire e consultare via web un enorme database usato dalle spie di tutto il mondo? Da Mountain View arrivano solo risposte di circostanza. Secondo Steele, anche i ripetuti attriti pubblici tra la multinazionale e il dipartimento di Giustizia americano, su questioni di privacy e mancanza di collaborazione, sarebbero solo una mossa mediatica per salvare la faccia dell’azienda.
NESSUNA AUTORIZZAZIONE
“Chiunque voglia trattare dati personali e dati sensibili – spiega l’avvocato milanese Gianluca Gilardi, specializzato in relazioni industriali e privacy – ha l’obbligo di chiedere l’autorizzazione all’utente, specificando anche lo scopo del trattamento. Google non lo fa”. Non solo. Sfugge alla nostra giurisdizione: “L’azienda è in California, risponde alle leggi americane. Non può dirci dove sono fisicamente i database. Non lo sanno neanche loro. I nostri profili sono polverizzati su 450 mila server sparsi in tutto il mondo. Ora magari sono a Singapore, tra un minuto saranno in Russia”. Sempre e comunque nelle mani di Google.

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