La madre di tutte le papere del portiere (uscita a farfalle, rinvio addosso all’attaccante e quant’altro abbia saputo inventare Eduardo l’anno scorso) resta la “preghiera tremante”. Vedendo arrivare un tiro loffio e centrale lo stimato professionista s’inginocchia per ringraziare gli dei del favore, ma qualcosa gli cede, le serrande guantate diventano una tenda che il soffio sposta, la palla passa tra le gambe come uno sberleffo dalle implicazioni sessuali e lemme s’infila. Da piccoli, nelle geniali collane dei giochi di parole, riluceva questa perla: “Il peggior portiere egiziano?”, “Mahani Dimerda”. Tradotto: Christian Abbiati.
Campione, sia detto, ma non certo in quel fatale istante, domenica sera, sotto le luci artificiali dello stadio Bolgia di Torino, davanti alla sua ex squadra e al tiro non proprio irresistibile di Marchisio. E’ una scena doppiamente significativa, madre e matrigna, che si specchia nella feroce esultanza di Gigi Buffon dall’altra parte del campo. Il suo senso va cercato nell’universale e nel particolare. A livello collettivo è la sintesi di una disfatta. Intesa non tanto come sconfitta, quanto come letterale disfacimento. Il Milan si sta sciogliendo. Siamo tutti esperti il lunedì successivo, ma una squadra che ci mette una pezza con Lazio e Udinese in casa e ne busca tre a Napoli, è un’armata allo sbando. Nel secondo tempo la Juve la prende a randellate e la manda al tappeto con il pugno fantasma del pugile fortunato ma meritevole. Il ko, però, il ko è quella sberla autoinflitta. Un atto di puro masochismo al cospetto della folla che chiede la mattanza del diablo, di Andrea Agnelli che fuma vendette, di Antonio Conte che illuminato da saggezza ha trasferito il furore dagli schemi agli uomini, di gente che assalta il palazzo con una fasciatura sulla testa (Chiellini), un cerotto sulla fronte (Vidal) e la sete in gola (tutti gli altri). Cedere è un conto, arrendersi un altro, inciampare in trincea e farsi calpestare a battaglia ormai finita un altro ancora.
Le voci di Sky hanno appena messo Abbiati tra quelli da salvare quando combina il guaio. Un misto di casualità e di errore, come tutta la sua storia. Abbiati debuttò per caso, sostituendo Sebastiano Rossi espulso nel Milan dello scudetto per caso: annata 98-99, allenatore Zaccheroni, suicida la Lazio. Giovane e ardito, fu immediatamente eletto tra i migliori guardiani rossoneri della storia, al pari di Cudicini e Albertosi. Poi gli preferirono Dida. E questo basti.
Provarono a cederlo al Genoa, ma tornò indietro perché la squadra era stata spedita in C1 dalla giustizia. Lo mandarono proprio alla Juve come indennizzo per averle spezzato Buffon. Ferito lui pure, Abbiati partecipò al coro: “Chi non salta rossonero è”. Credeva di aver trovato una nuova famiglia. Lo diedero al Toro. Il Milan era diventato il genitore che ti abbandona; le altre squadre: affidi non riusciti. Giocava bene e razzolava non benissimo. Ognuno ha il diritto delle proprie opinioni, meglio fascista che ipocrita. Ma a quelli del distinguo: “Per la patria e per l’ordine. Escluse le leggi razziali e l’alleanza con Hitler”, che dire? “Hai dimenticato i treni che arrivavano in orario. Ad Auschwitz”. Abbiati ha festeggiato lo scudetto con la bandiera sbagliata, sempre per caso. Forse era dei commandos tigre, forse di un’organizzazione più minacciosa: è stato un errore. Può capitare. Come in campo.
Meglio fare la papera dello 0-2 che quella di uno 0-1. Abbiati è decisivo nel bene. Non nel male. Viene da famiglia di custodi, ha elevato il rango, ma continua a non trovare casa. Un anello della curva milanista ha esposto uno striscione d’insulti nei suoi confronti. La Destra per cui votava gli ha fatto sapere che “sta con i proletari e non vuole milionari”. Il suo destino migliore è quello di secondo. Quando parte dietro (perfino a Leo Franco nell’anno all’Atletico Madrid) poi finisce davanti e in gloria. Da prima scelta gli capita di toppare, esponendosi alle ritorsioni del disamore. Cantava lo stadio juventino: “Chi non para rossonero è”.