lunedì 13 Ottobre 2025

C’era una volta Italia – Germania

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poi venne il nome della rosa

Cosa significasse un dì la nazionale per la Germania lo si può capire soltanto se si ha avuto la fortuna di guardare “Il miracolo di Berna”, film che registra con magistrale tocco carico di pathos come sulla traccia della vittoria mondiale del 1954  le diverse generazioni di un popolo ferito, occupato, diviso, abbiano saputo rinascere e sollevarsi con orgoglio e dignità.
Un tempo qualunque giocatore indossasse la casacca bianca della squadra tedesca si trasformava in un guerriero. Un tempo noi italiani, più furbi e un po’ indolenti, tiravamo di fioretto ma poi di colpo anche di sciabola e, con orrore degli inglesi e dei francesi, arrivavamo spesso in fondo.
Eravamo, gli uni e gli altri, i dominatori dell’Europa e per sette volte sul trono del mondo.

E, cosa bizzarra, mai, dicasi mai, i tedeschi ci batterono in una partita ufficiale.
Era Italia – Germania.

Il nome della rosa
Anche stasera apparentemente è così, ma lo è solo nominalmente, “nel nome della rosa”, perché tutto in realtà è cambiato.
Tutto è cambiato con la volontà politica mondialista imposta mediante le pay tv.
Una volontà mondialista che si fonda sull’internazionalismo e sull’intercambiabilità delle nazionalità. Anti-identitaria per scelta e per calcolo; totalmente anti-identitaria.
E’ dalla Francia che quest’azione politica, programmata, partì già negli anni ottanta e poi, pian piano, fu accolta più o meno da tutti.
Così anche in Germania da qualche anno si è avviata la rivoluzione. In campo una serie di naturalizzati tedeschi, che vengono dal Maghreb, come dalla Turchia, dalla penisola iberica come dalla Polonia (ma visto che quest’ultima ha inglobato ampie regioni storicamente tedesche per secoli e restate tali fino all’ultima guerra, forse in quest’ultimo caso le cose stanno un po’ diversamente).

Per il resto: il passaporto? Se lo vuoi te lo prendi. Magari non vale per tutti, ma di certo per i calciatori. 
Non è una gran novità. Quasi vent’anni fa la Gazzetta dello Sport pubblicava la lettera di un lettore che non intendeva polemizzare con Cafu, il quale – per poter essere considerato “comunitario” – aveva ottenuto a tempo di record il passaporto italiano per via di un presunto trisavolo nato nella Penisola. “Perché mai però – si chiedeva il lettore – mia moglie, nata in Germania da ambo i genitori italiani e sposata con un italiano non ha ancora ottenuto la cittadinanza già richiesta da anni?”

Questi escamotages, così facili per i divi sostenuti da sponsores, stridevano e tuttora stridono con la quotidianità.

“Antirazzismo”?
Da allora però se n’è fatto un altro uso e sono grimaldelli. Perché Cafu, “italiano” per cavillo è pur sempre rimasto brasiliano e ha sempre giocato nel Brasile.
Viceversa in Europa da qualche anno in qua è partita la campagna per fare delle nazionali non più le espressioni di una nazione ma dei collages.

Nel 2006 D’Alema e la Melandri, che ci rappresentavano a Berlino quando ci laureammo campioni del mondo, si scusarono praticamente con tutti annunciando che presto anche noi avremmo avuto una selezione multiculturale e multirazziale.
L’omogeneità era già diventata politicamente scorretta.
E questo in nome di uno sbandierato “antirazzismo” che se approfondiamo  non c’entra minimamente con tutto ciò. Anzi, dietro una parvenza ecumenica si cela, e neanche troppo bene, un enorme disprezzo.

Nazione, da natio, indicava – e giuridicamente tuttora indica – la discendenza sanguinea. Che, tradotto nella norma in vigore, non significa che per appartenervi si deve essere figli di due bianchi, ma figli di almeno un genitore italiano. Oppure aver acquisito sul campo di battaglia, o con il sangue versato, una comunità di destino.

Nel che, in ogni caso, si è sempre andati cauti. Pochi anni fa si spegneva in Francia un uomo nato in Italia che nel 1914 si era arruolato nell’esercito francese per combattere la Grande Guerra e che, restato colà, sposata una donna di lì, avendo avuto da ella dei figli e trascorsa la vita nel Paese transalpino, aveva ottenuto la cittadinanza francese solo dopo oltre quarant’anni. 
Assurdo direte voi? Per niente. “Cambiare” nazionalità non è una cosa così priva di significato, in realtà richiede più responsabilità del cambiare sesso. E inoltre “concedere” la propria nazionalità a qualcuno non è sinonimo di rispetto per lui ma al contrario sottende una presunta superiorità di qualcosa che, appunto, si concede a qualcuno che, volenti o nolenti, si considera inferiore.

Dei fratelli Boateng quello più fiero e orgoglioso è di certo il milanista che, fregandosene altamente della possibilità di diventare campione con la maglia tedesca, ha rivendicato la sua identità ghanese ed ha giocato il mondiale con la sua gente. Il terzino del Bayern, che ha scelto invece di farsi tedesco, non ha fatto una grande figura, né migliore l’hanno fatta i tedeschi accogliendolo paternalisticamente.

Per antirazzismo? Ma cosa significa razzismo? Disprezzo degli altri? Se questo è il significato allora naturalizzare un Boateng, quella è stata una scelta razzista. Se il suo significato è invece la difesa delle specificità, allora il Boateng ghanese ha fatto lui una scelta razzista. E se così è stato si è trattato di un razzismo nobile e ammirevole.

Razzismo e dintorni

Il Camerun del 1990, il Senegal e la Turchia del 2002,  il Giappone del 2006 mi hanno dettato non solo simpatia ma ho fatto anche una certa dose di tifo per loro. Razzismo? Forse. Basta che ci si metta d’accordo su quello che significa.
Se significa difendere e affermare tutte le culture e tutte le diversità, allora tenere per i pellerossa e per i palestinesi, come ho sempre fatto, è razzismo.
E guardare con orrore allo sradicamento globale, volto a costruire plebi prive d’identità, alla Harlem in Nike, tutte chewing gum, ketchup e “diritti delle minoranze” che ledono quelli dei popoli, chiamatelo come vi pare. Se lo volete chiamare razzismo fate pure, non mi scandalizzerò.
In ogni caso che, sulla falsariga dei complessi di D’Alema e della Melandri, cavalcando l’onda dell’europeo della nostra inedita (multi)nazionale con ben tre naturalizzati su ventitré, prima Fini, poi Napolitano e infine Bersani, senza che nessuno se ne sia accorto,  stiano proponendo il passaggio allo ius soli e, quindi, la retrocessione della nazione ad un agglomerato geografico che non avrebbe fatto felice neppure Metternich, è inquietante.
Né ci si venga a menar il can per l’aia  raccontandoci che gli immigrati onesti che lavorano da noi hanno il diritto di diventare italiani. I diritti e la nazionalità sono due cose ben distinte, tanto che a volte i primi sono addirittura maggiori per chi non ha la seconda. 
Si osservi piuttosto che questi immigrati onesti e lavoratori solitamente sono fieri della loro nazione, della loro cultura e della loro identità e che pretendere d’imporre loro le nostre, un po’ come se li emancipassimo, è vergognoso e imbarazzante.
Questo coacervo di sottili violenze “liberatorie” è minaccioso per tutti, come lo è quasi tutto ciò che passa per progresso morale e civile.
Lo è per l’Italia come per tutte le nazioni che abbiano un retaggio e una radice.
Non lo è certamente per quelle americane che queste trasformazioni ce le suggeriscono perché lì le nazioni sono state sterminate da tempo dagli invasori multiculturali i quali debbono sopperire artificialmente all’assenza di radici e laddove non c’è alcuna sede primigenia  devono inventarsi come “terra promessa”.
Una terra promessa, che si vuol fare globale, e che vuol distruggere usi, costumi, storie, leggende, miti, gusti, per approdare ad una standardizzazione senz’anima.
Ed è in questo preciso processo che, ostaggi di queste politiche oligarchiche e di questa volontà pangenocida sulla quale si fonda il mondialismo, due squadre nominate Italia e Germania si affrontano stasera.
Buon “nome della rosa” amici miei, e che le spine non vi facciano troppo male quando vi risveglierete dai circenses utilizzati da quelli che non solo il panem ma anche l’orientamento vogliono farvi perdere. E che, a giudicare da quanto vedo, ci stanno riuscendo perfettamente.

Se ci riuscite provate pure a credere che quella di stasera sia la solita storia. 

L’uomo è maestro nel rappresentarsi la realtà come vuole, peccato che quest’ultima se ne freghi di come egli la infiora.

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