In Italia la piaga delle “conoscenze” e delle “spintarelle” è tutt’altro che estirpata. Essa è anzi necessaria alla sopravvivenza del sistema dominante: è sui rapporti di clientela che si regge il potere oligarchico. A sessant’anni dalla sua fondazione, il regime para-mafioso regge che è una bellezza…
Un Paese di raccomandati. Non è una novità, ma quando a confermarlo sono le cifre, fa sempre una certa impressione. Oltre cinque italiani su dieci trovano un lavoro grazie alle reti informali: amicizie, segnalazioni, referenze. In una parola, raccomandazioni. Parenti, amici, conoscenti diventano così i pilastri di un collocamento rudimentale che, nonostante tutti i tentativi di modernizzazione, continua ad essere improntato al «fai da te».
Il tam tam, il passaparola spinge i cercatori di lavoro a proporsi direttamente a potenziali datori di lavoro (22%), a inviare curriculum (27%) o a sfruttare esperienze precedenti (4%). Il ricorso ai servizi pubblici all’impiego è piuttosto scarso (10%). E a ragion veduta, dal momento che solo una quota marginalissima di chi vi si rivolge trova davvero un lavoro (4%).
Fermi sembrano invece i concorsi, mentre non manca chi la sua grande occasione la va a cercare sfogliando i giornali (13%) o cliccando su Internet, strumento in forte crescita (» 49%). I dati Isfol non ci sorprendono, anzi, in qualche modo appaiono sottodimensionati rispetto ad altre ricerche, che fanno ammontare addirittura ai due terzi il peso delle raccomandazioni. Ma non è un bel segnale vedere apparire un Paese che continua a privilegiare strumenti arcaici e rudimentali, che mette agli ultimi posti per esempio le società di selezione e le agenzie private di collocamento.
La ricerca delle risorse umane, la caccia ai talenti, dovrà necessariamente spostarsi verso attrezzi e metodologie più professionali, soprattutto in questa fase di riforma del mercato del lavoro, che vedrà presto la nascita di nuovi intermediari, dedicati alla cosiddetta somministrazione di lavoro, sia a tempo determinato che indeterminato. Per adesso dobbiamo accontentarci del «bricolage». Il reclutamento delle migliori risorse umane ha invece bisogno di trasparenza: trovar lavoro non dovrà essere più un colpo di fortuna o la spinta di una persona influente.
Del resto, oltre che arcaici, i canali informali non sono nemmeno del tutto efficaci, se è vero, come ci racconta l’Isfol, che una grande fetta di imprese denuncia una forte difficoltà di reperimento di manodopera (44%). Né può consolarci il fatto che di fronte alla raccomandazione «tutto il mondo è paese». Ce lo ha spiegato Dorothy Louise Zinn, un’antropologa americana, che a questa pratica ha dedicato i suoi studi. Trasferitasi in Basilicata ha concentrato le sue ricerche sul campo sul paese di Bernalda, che è diventata famosa, suo malgrado, come «capitale della raccomandazione». I suoi 12 mila abitanti stiano tranquilli, dice la Zinn, perché sono in buona compagnia. Non solo infatti, distinguendosi da Edward Banfield, l’inventore dell’espressione «familismo amorale», queste pratiche sono diffuse nel Sud, dice la Zinn, ma le troviamo anche nel Nord. Mal comune, mezzo gaudio? No di certo. Ma la spintarella è ovunque funzione di inefficienze e burocrazia e dell’assenza di servizi professionali. Il metodo delle referenze è molto diffuso negli Stati Uniti, nel lavoro e nell’accesso ai livelli alti della carriera scolastica, ma anche in Germania e in altri Paesi europei, dove vige il cosiddetto «crony capitalism», il capitalismo degli amiconi.
Come si fa a estirpare una pratica che dal lavoro passa a una gran quantità di servizi? Quando viene usata per velocizzare una pratica, per trovar posto per le case popolari, per avere una certa maestra, per entrare rapidamente in un ospedale? La raccomandazione è figlia dell’inefficienza e di una società abitata da clan. Esige un dono, un voto, una tangent