mercoledì 19 Novembre 2025

Cosa accade a Gaza?

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Partirei dalla relazione che tenni per diverse radioweb qualche mese dopo il 7 ottobre

in cui mettevo l’accento sul fatto che Israele si era da poco trasformata in un hub energetico israelo-arabo, sostenendo che di questo si dovesse tener conto, così come dell’alleanza tra Tel Aviv e diversi governi arabi, alcuni dei quali cooperano addirittura nella sua difesa contraerea.

La scoperta di ingenti quantità di gas naturale al largo delle sue coste

ha portato al rafforzamento dei rapporti con l’Egitto e alla creazione di una solida partnership con Cipro e Grecia. La stessa partecipazione di Israele nell’East Mediterranean Gas Forum si può inscrivere in questa fase di rinnovato attivismo regionale.
Oltre alle ricadute sul piano interno, la scoperta dei giacimenti Tamar e Leviathan ha permesso al Paese di ridurre considerevolmente le proprie importazioni energetiche e di diventare, nel 2020, un esportatore netto di gas naturale. Da allora gran parte del gas prodotto dai giacimenti israeliani viene esportato in Egitto attraverso l’East Mediterranean gas pipeline, un’infrastruttura che collega Ashkelon con la città egiziana di Arish e che era stata inizialmente concepita per rifornire Israele di gas egiziano.

Anche la firma ad agosto 2020 degli Accordi di Abramo

che ha sancito la normalizzazione dei rapporti con Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco, ha avuto un profondo impatto sull’evoluzione del comparto energetico israeliano. Abbiamo avuto un fiorire di accordi bilaterali e investimenti in ambito energetico tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Marocco in primis.

Se il gas naturale continua a rimanere al centro di queste relazioni energetiche, ci sono stati importanti investimenti anche nell’ambito delle rinnovabili e dell’idrogeno. A marzo 2022 la compagnia statale Israel Electric Corporation ha firmato un memorandum con l’emiratina Energroup per lo sviluppo in Israele di progetti legati all’idrogeno verde e blu. Pochi mesi dopo, a settembre 2022, Israele e Marocco hanno annunciato un accordo per rilanciare le opportunità di ricerca bilaterale in ambito energetico, specialmente riguardo all’economia dell’idrogeno, all’energia solare e alle batterie. La cooperazione in questi ambiti è anche al centro di alcune piattaforme di cooperazione regionale o interstatale a cui Israele ha preso parte nell’ultimo periodo, dal Forum del Negev all’I2U2, il forum recentemente costituito con Emirati Arabi Uniti, India e Stati Uniti.

Nel corso di due decenni Israele

si è trasformato quindi da un Paese dipendente dalle importazioni di idrocarburi a un esportatore netto di gas naturale. All’indomani della guerra in Ucraina, questa metamorfosi ha permesso di rafforzarla ulteriromente.

Allora sostenni che si dovesse tenere conto di questa trasformazione per spiegare le prospettive israeliane miranti tra le altre cose a ridurre al lumicino il futuro Stato palestinese, che dovrà essere comunque riconosciuto per gli accordi con le petromonarchie, ma tenuto sotto tutela.
In seguito le cose sono precipitate e ci sono stati i bombardamenti del Libano, dell’Iran e del Qatar.

Oggi come stanno le cose?

Il quadro è complesso, perché entrano in gioco non solo gli interessi delle petromonarchie ma anche le loro rivalità e ha luogo una doppia partita di Trump per garantirsi l’egemonia: una proprio con Israele e un’altra con la Cina.
Il piano di pace di Trump è stato avallato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU da governi che non sono di certo filo-israeliani, quali il turco, il pakistano e l’indonesiano.

Tale piano, esposto a Sharm-el-Sheick davanti a un nugolo di players, cui, su pressione europea, fu aggiunto Mahmoud Abbas, presidente della non riconosciuta Palestina ed esponente dell’ANP, la rivale di Hammas, è successivo di un mese al bombardamento israeliano a Doha.
Una prova di forza, quella, che probabilmente si è rivelata un boomerang.
Difatti Trump si è affrettato ad allargare il suo ombrello protettivo al Qatar e a proporre l’invio di contingenti di pace internazionale a Gaza. Questo per tenere in riga Israele.

Intanto l’Arabia Saudita siglava con il Pakistan l’accordo per un ombrello atomico, un messaggio a Tel Aviv ma non solo. Il Pakistan è vassallo cinese e Pechino ha preso una notevole influenza in Medio Oriente, che gli americani vogliono contenere garantendo le petromonarchie arabe e proseguendo sulla strada degli Accordi di Abramo del 2020 che, rammentiamolo, sono opera di Trump. Gli USA dovevano rispondere subito.

Il dato più notevole sta nella promessa fatta dagli americani ad Hamas

di garantirne l’immunità se passa dalla lotta armata alla semplice attività mafiosa che in ogni caso già svolge sui palestinesi.

In questo c’è il tacito avallo israeliano tanto che gli si è lasciato assassinare platealmente i palestinesi a Gaza accusati di “collaborazionismo”. Da che pulpito!
Si è trattato di fare pulizia dei rivali, come avvenne in Italia nel 1944 per macchinazione russoamericana contro i filo-inglesi mandati coscientemente al macello alle Fosse Ardeatine.

Hamas è da sempre una formazione mafiosa e gangsteristica servita a sabotare l’unità palestinese. In un mondo così complesso, ambiguo e variegato come il Medio Oriente, si è accomodato un po’ con tutti, per i finanziamenti e per le protezioni. Dallo stesso Israele, al Qatar, passando per l’Iran e per la Borsa di Istanbul. Quasi ognuno dei suoi referenti gli sta chiedendo di assumere il controllo di Gaza dopo un maquillage, giusto per la forma: basta che s’infiltrino o cambino nome, ma chi meglio di loro può fare il Capò? Tra banditi ci s’intende!

Non c’è dubbio che Hamas accetterà: ha già messo le sue milizie in campo contro Assad e in Egitto aiuta il governo contro altre formazioni jihadiste.

I nodi da sciogliere restano però diversi

Il primo è Netanyahu che non può assolutamente gestire una politica di “pacificazione”, ed è la ragione per la quale Trump ne ha più volte richiesto la grazia in cambio, ovviamente, del cambio di leader. Questo dimostra che l’avventurismo a Doha lo ha indebolito al contrario di quanto potesse sembrare di primo acchito.

Si tratta poi di stabilire quale sarà la riserva indiana che verrà lasciata formalmente ai palestinesi.
Voci di corridoio riportano che Israele sarebbe disposta a concedere Gaza ma non la Cisgiordania.

Infine è da capire quale forza internazionale dovrà garantire la pacificazione.
Tra i massimi candidati abbiamo Turchia, USA e Indonesia, ma, se ci sarà, la forza internazionale sarà molto più articolata perché nessuno intenderà uscire dalla partita.

Con quali effetti?

Più o meno quelli che annunciavamo oltre un anno fa.

Il primo è che, ancora una volta, in zone per noi strategiche sia geograficamente che energeticamente, il controllo non sarà europeo, ma ad opera di players regionali, più USA e Cina.

Il secondo è che, essendo noi comunque in rapporti energetici ed economici con i governi arabi, le minoranze jihadiste che si oppongono ad essi saranno ancor più spinte a compiere attentati terroristici nelle nostre città.

Il terzo è che, come avevo purtroppo indovinato, la voce dei palestinesi in Europa, o per meglio dire, la voce degli antipalestinesi in Europa, infeudata agli antifa arcobaleno, si tingerà sempre di più di un islamismo immaginario.
Si va incontro a quell’islamogauchisme lanciato in Francia da Mélénchon.

La polveriera non è disinnescata per niente e le esplosioni colpiranno anche noi.

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Ormai è diventata un valore anche in quel senso

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