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Diventeremo un’espressione geografica?

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Il futuro che ci attende


La nazionale ha fallito. Peggio era andata solo ai mondiali del 1958, i soli a cui non riuscimmo a qualificarci. Gli stessi punti di ora li facemmo nel 1950 – sessant’anni fa! – ma giocando una partita in meno e vincendone comunque una, che valeva due punti.
Non poteva non fallire, accompagnata dagli striduli commenti televisivi di Bagni destinati a coronare catastrofi, sinistramente appesantita da inverecondi post-partita con Maurizio Costanzo e affiancata nella sua prova decisiva dall’incauto rito alemanniano di spegnimento luci a Roma.
Roma che i suoi sindaci, apprendisti stregoni, continuano a dimenticare essere dea di cui è pericoloso violare la maestà.
La nazionale ha fallito quindi in un clima preposto al fallimento, che ha contribuito su ciò che è essenziale ed impercettibile, ma ha fallito  di suo.
Molto probabilmente sono state sbagliate delle scelte nelle convocazioni ma manca la controprova.  Quelle eventualmente errate sono in prima linea e non si tratta di giovani (Totti, Cassano, Toni). L’unico attaccante decente non ancor vecchio a  essere rimasto a casa è Borriello che bravo è di certo, ma non si può definire un fuoriclasse. Poi si può recriminare per l’assenza a tre quarti dell’attempato Perrotta o magari di un Marco Rossi.  Insomma non ci resta molto da rimpiangere a meno che non volessimo recuperare Filippo Inzaghi.


In difesa non ci siamo più


Raschia il barile, se vuoi, ma ci  trovi poco.
Soprattutto quasi nulla si scova più per la difesa, che è il nostro tradizionale reparto di forza, corrispondente alla nostra indole di “difensori eccellenti delle mura” come sostenva Carlo V che vedeva “gli spagnoli atti ad assalirle e i tedeschi a combattere in campo aperto”.
E così come si comportarono gli antenati nella pugna si son poi sempre comportati i rispettivi discendenti sul terreno di gioco, confermando che la nazione è nel gene.
Ma noi in difesa non ci siamo più.
Cannavaro è arrivato da tempo e alla fine ha rappresentato un buco nero per la nostra linea arretrata in Sud Africa, ma, come ogni buco nero che si rispetti, apporta il buio. Un buio in cui si spera poter far brillare un giorno Ranocchia (oltretutto infortunato) o Bonucci, giovani volenterosi di un Bari da centro classifica senza alcuna esperienza internazionale e che non ha mai affrontato un test degno di questo nome.
Stiamo messi male.
Per la prima volta nella storia, la squadra campione d’Italia, che vince da quattro anni di fila, non ha un convocato in nazionale. Per il semplice motivo che non ha alcun titolare italiano e  mai come quest’anno ha tenuto fede al suo nome: Internazionale.

Stranieri e procuratori


Il problema è che siamo zeppi di stranieri. E non solo nelle società che possono spendere e spandere, come l’Inter, ma anche in quelle che devono stringere la cinghia, come la Lazio o il Catania. Perché ci sono stranieri da miliardi ma ce ne sono anche tantissimi  che costano assai meno dei nostri giocatori dei vivai e ovviamente si punta a risparmiare, non a scialacquare.
E poi siamo ricattati dai procuratori; procuratori che montano la testa a qualsiasi virgulto della primavera e lo invitano a far alzare il prezzo, a far saltare i contratti, a mettersi sui mercati.
Con la conseguenza che a diciotto anni questi adolescenti fortunati si sentono già campioni, che non fanno più allenamenti seri, che non curano i fondamentali, che litigano con gli allenatori; risultato: nove volte su dieci spariscono e la decima diventano dei divi viziati e inaffidabili, forse senza raggiungere i livelli ineffabili dell’ineffabile Balotelli, ma senza offrire comunque garanzie caratteriali.

Ci vorrebbe uno Stato

Ci vorrebbe uno Stato. Ci vorrebbe un’autorità che calmierasse il ricorso agli stranieri e che mettesse guinzaglio e museruola ai procuratori. Ma dobbiamo tener conto che le corti internazionali non accettano quest’autorità perché sostengono che interferisca sui diritti di circolazione dei lavoratori. E, soprattutto, sugli interessi di Sky, dell’Adidas, della Puma, della Nike.
Ma se non interverrà uno Stato, se non interverrà un’autorità a imbavagliare i procuratori e a promuovore i vivai, potremo dire addio alla nazionale italiana.
Il futuro del calcio sarà quello tanto caldeggiato dai D’Alema e dai Fini: un acquisto continuo di giovani mercenari globetrotters del terzo e quarto mondo che si “italianizzeranno”. Quasi che italiani ci si diventasse così come s’indossa un vestito.
Sicché ci ritroveremo a dover dire addio ai Piola, ai Meazza, ai Biavati, agli Orsi, ai Mazzola, ai Riva, ai Burgnich, ai Rosato, ai Facchetti, ai Domenghini, ai De Sisti, ai Rivera, ai Conti, ai Rossi, ai Tardelli, agli Scirea, ai Cabrini, ai Maldini, ai Totti, e prepararci a vivere, con la nostra futura de/nazionale, partite come quella di mercoledì scorso tra Germania e Ghana con due fratelli, i Boetang, schierati contro. Perché hanno “scelto” la nazionalità, una ciascuno, così come si firma il cartellino per un club.
E finiremo nell’isteria folle e bancarottiera della Francia o, se ci dirà un pochino meglio, almeno transitoriamente, nel supermarket neo-tedesco che, come risultato, schiera una squadra che non  si sa se abbia un’anima, ma, se c’è, è ben poco germanica, come si nota anche nei movimenti con e senza palla.
Questa eliminazione cocente rischia insomma di essere l’omega drammatico, tragico, di una storia, di una tradizione, di un’identità.

Venticinqueluglisti

L’unico elemento continuativo tra l’Italia che fu e la Non-Italia che i nemici del bello, della norma, della qualità, della tradizione, dell’alto, vogliono imporci, è il venticinqueluglismo.
Io non sono mai stato un fan di Lippi e credo pure che  responsabilità nella catastrofe odierna le abbia. Probabilmente nelle scelte, di certo nella preparazione. Tuttavia mi ribolle il sangue quando odo affermazioni sprezzanti e distruttive, fatte con scherno e rabbia, per il ct che solo quattro anni fa ci guidava alla conquista del titolo mondiale.
La folla ora vorrebbe cannibalizzarlo. E questo mi fa pensare che forse questa folla si meriti null’altro che Fini e Balotelli come si è meritata Badoglio e decenni di disonore.
Ma io no, io proprio no: odi profanum vulgus et arceo.
Un volgo che si è ridotto ad acclamare Balotelli: un ragazzino acerbo con qualche numero tecnico, messo fuori rosa dall’Inter per offesa alla squadra e alla maglia, emarginato dall’under 21 perché gioca quando gli va e solo per se stesso, e ancora incerto se prendere la nazionalità italiana o ghanese. A questo si è ridotto il volgo?  A queste prospettive, a questi appigli?
Questo volgo se la merita tutta la vergogna sudafricana e gli auguro ogni disgrazia.
Ma il volgo non è il popolo, è la parte peggiore della massa che prende rumorosamente il sopravvento in assenza di gerarchie. Io punto ancora al popolo e alla nazione.
E dunque spero in un sussulto che ci tiri fuori da questa prospettiva angosciosa e orrenda. Spero che un miracolo  salvi l’Italia: e i miracoli sono sempre politicamente scorretti; molto, molto, scorretti.

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