Come dicevano un tempo: “Hic Rhodus hic salta!”
Chiassosi talk show in cui s’incrociano le spade della più crassa ignoranza, spregevole antropologia social e uno spaventoso provincialismo retrogrado determinano la narrativa politica italiana.
Così è un azzuffarsi sul niente. Le forze politiche, adeguatesi a questa pietosa farsa, si scontrano per slogan o per narrative. Ma non è più tempo per questo, gli eventi precipitano e si deve esprimere una soluzione strategica.
Non c’è governo né maggioranza che possa ignorare i limiti di azione in cui può agire; solo se ne terrà conto e, in pieno realismo, cercherà di costruire una strada, un progetto, potrà metterci del suo, come accade in altre nazioni, oppure non farà che eseguire disposizioni dettate altrove e presentarle con un lessico piuttosto che un altro.
L’Italia è in ritardo rispetto ad altre nazioni malgrado la ricchezza di risorse e di iniziative, sicuramente per colpa dalla classe politica ma anche della mentalità degli italiani (quelli ci cui Kissinger disse “hanno un pregio: sono molto intelligenti, ma hanno un difetto: sanno di esserlo”).
Furbetti, individualisti e temporeggiatori, finiscono con lo sprecare regolarmente il proprio potenziale.
Sicché il primo problema italiano è la somma tra la mancanza di piano industriale e la voragine in cui si sono incanalati i fondi dell’assistenzialismo taroccato, del clientelismo, dell’associazionismo, del consociativismo, in particolare nel buco nero delle regioni.
Il secondo problema sistemico è il debito estero. Abbiamo ormai un debito pubblico di quasi 2.800 miliardi di cui la maggioranza è in mani straniere e questo condiziona ogni scelta fiscale e di spesa. Perciò, fino a quando non sarà stilata una politica di riacquisto, sarà del tutto inutile frignare per le imposizioni dei creditori.
Il terzo problema è l’inverno demografico.
Cui se ne aggiunge un altro: la sottomissione strategica che non dipende tanto dalle basi Nato, oggi tornate improvvisamente di moda negli strali dei fancazzisti, quanto dalle imposizioni cui abbiamo sottostato quando tradimmo nel 1943. Così su di un elemento-chiave come la robotica, pur essendo all’undicesimo posto mondiale (e al quinto occidentale) nella concezione, siamo gli ultimi per quello che concerne formazione e utilizzo scolastici e professionali.
La nuova fase della globalizzazione spinge a una rilocalizzazione parziale e all’ipotesi di industrializzazione 4.0.
Con quale proletariato? Perché si tratta ormai di operai specializzati. In Germania, che pure fa formazione e seleziona gli immigrati a monte, si paventano carenze di qui a dodici anni di 7 milioni di lavoratori specializzati. In Italia non abbiamo ancora intrapreso alcuna azione.
Se ci sarà reindustrializzazione si dovrà lavorare su formazione scolastica e d’impresa, robotizzazione e una politica diversa sull’immigrazione, oltre a una politica demografica.
Va immaginato e costruito tutto, altrimenti si continuerà a blaterare del nulla.
Tutto questo è sostanziale e si aggiunge a problemi concettuali e culturali, quelli dell’aids mentale (wokismo, politica di gender, destrutturazione identitaria). Su questo fronte si possono vincere battaglie importanti ma non servirà se non ci sarà un’avanzata strutturale su tutti i piani.
È tempo che tutti facciano lo sforzo necessario per tracciare e lastricare le strade maestre che consentano l’attraversamento e la bonifica di questa jungla paludosa caratterizzata da grovigli di liane. Questo è il vero imperativo di oggi, a meno che non s’intenda la radicalità politica un po’ come l’opporsi alla ferrovia magnificando le meraviglie del pony express, o definire “antisistema” le liste che mettono assieme tutte le inconcludenti e preoccupanti paturnie schizo-paranoidi degli insoddisfatti.