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Economia così così

Una visione lucida

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Più bene che male

Eurostat riporta che l’economia della zona euro è cresciuta nell’ultimo trimestre dello 0.3% in media. Il risultato è migliore rispetto al corrispondente periodo del 2023 ma mostra un rallentamento congiunturale in atto e nasconde ampie differenze fra i vari Paesi. L’Italia registra una crescita del PIL dello 0.2% nel trimestre, ed è il quarto consecutivo con tale tasso; ciò implica un tasso cumulato dello 0.7% e un tendenziale per l’intero 2024 dello 0.9%. Questa previsione è confermata anche dall’ultima elaborazione ISTAT di giugno 2024, che evidenzia come il PIL italiano sia in crescita tendenziale per il 2024 del 1%, esattamente come previsto dal governo nella Nadef.

La Germania registra ancora un tasso trimestrale negativo dello -0.1%. L’autorevole istituto economico tedesco IFO non prevede alcun miglioramento nel terzo trimestre, ed anzi si aspetta una situazione in peggioramento dopo un 2023 già negativo, a causa del basso sentiment sulle aspettative delle imprese e del forte rallentamento delle esportazioni. Naturalmente il fatto che la maggiore economia della zona euro è in recessione non è una buona notizia per l’intera eurozona e in particolare per la nostra economia che, con quella tedesca è notevolmente integrata. Anche la Francia cresce dello 0.3% nel trimestre pre-Olimpiadi, anche se il dato potrebbe essere principalmente dovuto ad export importanti di natura militare. Il Paese con crescita maggiore è la Spagna, che continua a far meglio di tutti con tasso dello 0.8%, come il trimestre precedente.

Per l’intera zona l’indice Pmi dei direttori degli acquisti rimane a 45.8 a luglio come a giugno, ristagnando da due anni sotto la soglia di 50 che delimita l’espansione dalla recessione; la manifattura mostra debolezza con l’indice di produzione sceso a 45.6 a luglio da 46.1 di giugno, ed il numero di ordini è in riduzione con l’indice da 44.4 a 44.1 a luglio. La zona euro mostra, quindi, evidenti segnali di rallentamento della crescita, già di per sé molto bassa per il trimestre in corso, e l’aspettativa è per un consuntivo di fine anno di 0.7%.

Perché l’Italia cresce
Confermato dunque che, in questa congiuntura economica europea complessivamente deludente, l’Italia si muove ad un tasso di crescita migliore, analizziamone le componenti; finora hanno risposto bene sia i consumi privati che la domanda estera, +0.7% entrambe, mentre negativa la dinamica delle scorte. Anche la previsione governativa di una crescita all’1% per il 2025 trova dunque al momento conferma nei dati statistici disponibili. Non male. Noto che gli investimenti fissi lordi purtroppo si prevedono in decelerazione dal 4,7% del 2023 al 1.5% ed 1.2% rispettivamente per il 2024 ed il 2025; ciò per il venir meno degli incentivi fiscali all’edilizia, compensato solo in parte dalle misure del PNRR. Incidentalmente, chi segue le mie idee sa che guardo a questo dato con la massima attenzione visto che è la spesa in capitale fisso, tangibile e intangibile, a costituire l’unico precursore della potenziale creazione di valore aggiunto futuro.

Passando all’occupazione, in termini unità di lavoro la previsione già parzialmente avverata è di crescita identica a quella del PIL a 0.9%; dopo il dato Istat di maggio che ha registrato un 6.8%, la disoccupazione complessiva dovrebbe effettivamente attestarsi al 7.1% nel 2024 e 7% nel 2025. Il tasso di occupazione si attesta al 62.2 %. Ove questi dati fossero confermati, si tratterebbe del miglior dato che ricordi da decenni. Rimane come punto di estrema debolezza il tasso di disoccupazione giovanile che è riportato al 20.5%.

Infine, l’inflazione nella zona euro è rilevata al 2.6% medio; il dato nasconde una grande varianza. Ad esempio, abbiamo un 5.5% in Belgio, 2.6% in Francia e Germania, 2.9% in Spagna, 0.9% in Finlandia. Secondo Eurostat il tasso di inflazione in Italia è del 1.9%; da rilevare che per l’ISTAT l’inflazione italiana è ancor più bassa, addirittura al 1.3%. Questa grande varianza rende difficile il compito della BCE che deve manovrare un tasso unico per un’area economica a dinamiche non omogenee. Questi i fatti.

Chiudo con alcune opinioni: mi aspetto comunque una riduzione dei tassi sia a settembre che possibilmente di nuovo prima di fine anno, vista la bassa crescita comunitaria. La situazione in Germania e la necessità di sostenere la domanda a fronte di un potere d’acquisto dei cittadini in erosione dovrebbe prevalere sul rigore formale del raggiungere il target prefissato del 2%. Mi sembra che stiamo assistendo al diffondersi degli effetti dell’onda lunga dell’inflazione, dove i salari crescono meno del tasso di svalutazione monetaria (l’opposto della situazione statunitense), dove solo alcune imprese hanno pricing power e possono traslare i maggiori costi sui prezzi, e dove quindi la propensione ai consumi non necessari sia soggetta ad una stretta sempre più accentuata da parte delle famiglie e delle imprese; dal che deriva una ovvia riduzione del reddito di interi settori (turismo, distribuzione, formazione, ecc). I tassi comunque alti, dovrebbero da un lato favorire la formazione del risparmio, ma dall’altra il fenomeno del crowding out pubblico derivante dalla continua crescita dei disavanzi pubblici genera dis-allocazione di risorse verso progetti non necessariamente a valore aggiunto per la collettività. Aggiungo che il fortissimo sviluppo tecnologico negli Usa (molto meno da noi) ha a mio parere una intrinseca forte componente deflazionistica strutturale globale: l’importanza di questo fenomeno di esportazione deflazionistica credo sia costantemente sottostimato dagli economisti.

L’ingrediente speciale: le riforme
Conclusione estiva: la nostra Italia sta facendo meglio degli altri Paesi in una economia comunitaria sostanzialmente asfittica soffocata dalla burocrazia, da politiche economiche green suicide, dalla mancanza di coraggio imprenditoriale e soprattutto da una produttività multifattoriale (cioè, di sistema) negativa dove il tema della redistribuzione della ricchezza è sempre prevalente rispetto alla sua creazione e crescita. A parere di chi scrive il vero impatto positivo sull’economia nazionale, bloccata da troppi decenni in questo paradigma di assistenzialismo crescente e “prenditori” privati che spiazza gli imprenditori dinamici, come le PMI e le tante nostre micro eccellenze, verrà dalla realizzazione non tanto delle spese del PNRR, che presenta una quota altissima di debito da ripagare comunque, ma dalle realizzazione concreta di riforme strutturali cui il Governo ha messo mano: mi riferisco alla riforma fiscale, quella della P.A., quella della concorrenza, quella della semplificazione amministrativa. Occorre che i nostri figli ben capiscano queste dinamiche visto che il conto lo pagheranno loro.

Vittorio De Pedys*

*Professore di Economia e Finanza, Consulente presso il Servizio del Bilancio del Senato della Repubblica, Membro del Nucleo Tecnico per il Coordinamento della Politica Economica

**Tutti i dati citati sono fonte ISTAT ed EUROSTAT, ultime rilevazioni statistiche ufficiali

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